La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 77

Testo di pubblico dominio

lontananze, ov'era il mondo libero... Erano entrambi così assorti nelle reminiscenze d'un passato non lontano, che tanto Novella come Andrea non avevano quasi pensato alla gioia di rivedere il loro bimbo. Sicchè furon quasi percossi di maraviglia quando, nello scendere di vettura davanti alla scalinata, si videro venire incontro, su le braccia d'una calma e robusta nutrice, un bambinello in fasce, che stralunando gli occhi agitava le manine paonazze. Ambedue si guardaron fugacemente, non seppero se commossi o vergognosi, e per nascondere la loro confusione si chinarono entrambi con un moto concorde sopra le spalle ampie della nutrice, che sapeva di latte odoroso. Ed ella, ridendo nella faccia adusta, sollevò su le braccia rotonde, abili nel cullare, quel prospero infante, il qual parve appartenesse a lei più che alla sua madre. I cavalli andaron via facendo stridere la ghiaia; tra gli alberi s'attenuava il rumore delle sonagliere. La serena casa era ferita nei vetri dall'opposto sole; un'unica finestra rimaneva chiusa — ed entrambi la guardarono. Adesso mamma Francesca s'affaccendava intorno a Novella, narrandole infinite storie del suo piccolo bimbo. «Quel bocconcello di carne aveva uno spirito indiavolato... quel bocciolo di tulipano, gonfio e lucido, era d'una intelligenza e d'una forza che sbalordivano; certamente incomincerebbe a parlare prima degli altri bimbi, e — secondo mamma Francesca — somigliava come due gocce d'acqua a Marcuccio quand'era piccino... Nella serena casa nulla era mutato. Entrandovi, quei due che s'amavano si sentiron d'un tratto investire dall'ombra di lontani fantasmi, furono ancora subitamente l'amico e la moglie del morto. Ecco: avevan scoperto il luogo dov'egli abitava. Non già nella sua tomba, ma lì, sotto la loggia vetrata, nella poltrona di cuoio, carico di scialli, vicino a Marcuccio che scriveva o faceva la calza, con i suoi gomitoli di lana... — lì, nella sala terrena, dov'era il cembalo, il bellissimo cembalo a coda, in ebano luccicante, sul quale, un certo pomeriggio ch'eran rimasti soli, ell'aveva suonato per distrarre l'infermo una vertiginosa fuga di Bach, quand'era entrata la piccola Natalissa con il suo fascio di rose gialle... Abitava lassù, nella stanza chiusa, buia, morta. Rabbrividirono. E nel loro amore, che si era quasi dimenticato d'essere una cosa nefanda, ritornò a vivere lo sgomento di allora, il tradimento che li agghiadava e li ubbriacava, la febbre di tante lussurie che consumarono vicino alla morte. Quando la notte incominciò, nell'alte stanze della casa la nutrice sonnolenta cullava il bimbo nella cuna, cantilenando con una nenia lenta lunga lenta, che i muri antichi ripercotevano. «Fai la ninna, fai la nanna, fantolino della mamma... . . . . . della mamma...» Ed allora quando si coricarono, lontani, senza dirsi parola, stretti nel peccato che li univa come in un gelido sudario, a poco a poco, nell'alta camera dell'infante, anche la nutrice s'addormentò. Il silenzio divenne profondo come la fuga di un fiume sotterraneo. Ma udivan entrambi, nello spessore delle pareti, piovere, scendere, un non so che d'inafferrabile, che non faceva rumore, come neve. Eran presso e lontani, solo divisi da una fragile parete; facevan quasi uno sforzo mentale per allontanarsi ancor più; ma provavano tuttavia la sensazione che l'ombra li tenesse avvinti, bocca su bocca, mortalmente, implacabilmente avvinti, in un amplesso che li stremava d'ebbrezza e di terrore. Ma d'improvviso ricominciò a passare, come per un miracolo della memoria, quella notte che ormai erasi evaporata nella dispersione continua del Tempo. E come allora, d'un tratto rividero nella chiara camera funeraria il raggio di luna che vestiva il cadavere dal piede alla fronte, poltrendo su l'ampiezza del letto come un fascio di bianca elettricità... . . . . . . . «... non solo morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e freddo pareva di quell'algida luce che somigliava stranamente al colore della sua carne, al gelo della sua materia spenta. — «Vedi, — egli disse — com'è tranquillo?» Ma ella non rispose, forse non l'udì, assorta com'era nel guardarlo, cogli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso. Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come fosse piombo. Alte, nel miracolo della notte, le stelle così numerose che parevan nel deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo frantumato nella sabbia e balenante sotto lo sfarzo del sole. La notte bruciava ne' suoi vertici, aveva sopra il suo fosco edificio invaso d'ombre una cupola incendiata; l'eternità era espressa in luce, l'infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco. — «Vedi, com'è tranquillo?» La luce azzurra gli metteva intorno alle radici dei capelli una specie di scintillamento. Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto, e teneva le braccia contro il petto, incrociate per i polsi. — «Giorgio...» — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per accertarsi che fosse ben lui. Poi allungò la mano e lambì la coltre, lievemente, ritraendola con velocità... Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza dell'altro, mandargli un timido saluto, profferire per lui una dolce parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non ricordava più... Adesso le pareva necessario di fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pure non udisse: — Povero, povero amico mio... E s'avvide che s'erano lasciati senza una parola di commiato, senza un bacio nè una confidenza nè un secreto, senz'una di quelle parole conclusive che fanno men buia la morte a chi vi sprofonda e a chi guarda morire... — «Sì, mi hai chiamata e non c'ero! hai voluto vedermi e non c'ero! Hai voluto forse confidare a me sola un ultimo desiderio e non t'ho potuto ascoltare... Da te non ho inteso mai, mai, che parole d'amore...» — «Vedi, com'è tranquillo?...» Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo, ma su l'altro teneva un gomito e nei palmi la fronte. Nel medesimo tempo egli guardò il morto, e gli parve straordinario che vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana. Ma due sole immobilità perfette occupavano la stanza ed un solo raggio le aumentava nel suo fermo splendore. Poi, d'un tratto, la vide roteare sul ginocchio piegato; la pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni facevano, sollevando la camicia, una profonda incavatura. Dopo di lei osservò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si fosse chinata fuor dalla proda per guardare in giù. — «Vedi?» — gli disse mentalmente, con un riso che non saliva sino alla bocca. Gli parve che alcuno avesse aperto l'uscio... — «Vedi?» Un usignolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante, sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo stordiva... Il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante nell'inmensità. «Uuh!... Fi... Perchè canti? — Vattene!» L'usignolaccio saltava. Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro le foglie sonore. — «Vedi?» Un filo d'aria notturna soffiò fra i capelli radi del morto, e li scompose; poco dopo una nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel fascio d'elettricità. — «Vedi?» — E la nuvolaglia se n'andava piano piano, il raggio tornava, più mite, più forte, parendo invadere la stanza e colmarla come un fiume. — «Via... via... — balbettò quando fu ritta; — pórtami via!» Su l'uscio, nell'entrare in quell'altra camera, involontariamente si baciarono. — «Dammi da bere!... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato, — brucio di sete!» — «Acqua? — egli disse. —

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Argomenti: medesimo tempo,    due sole,    sforzo mentale,    fosco edificio,    canale azzurro

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