La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 29

Testo di pubblico dominio

bisognava spegnere quell'ombra, anche perchè non si vedesse dal giardino la sua finestra troppo a lungo illuminata; e trattosi da lei con la fatica dell'uomo che vinca una melma tenace, andò alla finestra, onde guardare se fossevi abbastanza lume di stelle per compiere quel che doveva nel buio. Una effusa chiarità lunare vestiva tra gli alberi una magnolia lucente, ed egli vide in capo dei possenti rami cullarsi quei suoi grandi fiori lascivi e candidi come un seno incipriato, che pareva dormissero su la pigrizia d'un'acqua sonnolenta. Dietro i vetri chiusi, egli non sentiva il profumo della notte primaverile; ma la fragranza di quei fiori di magnolia, che dall'albero antico e brillante incensavano l'aria come fontane di soavità, gli eruppe in faccia con una larga ondata, salendogli fino al cervello, così fortemente, che il profumo della notte lo stordì. Quella fragranza, quella chiarità lunare su l'albero di magnolia, e tutta insieme quella pace azzurra trascorrente nelle vive arterie della notte, eran ancora immagini delle cose a lui vietate, eran sirene che parevano attrarlo dentro un incantesimo di pace, visioni che lo persuadevano alla dolcezza dell'oblìo. — «Sì, puoi spegnere il lume,» — disse a lui, nell'intimo, la voce del suo vigilante complice. Retrocesse dalla finestra verso la tavola, spingendosi a forza di scatti, come un animale restìo, e nel posare le dita su la chiavetta del riflettore osservò che il suo polso non era fermo. — «Tremi?» Questa parola ch'egli aveva odiata conveniva ora dunque per lui? — «No, non tremo!» E rapidamente spense il lume. Ora egli vide cadere dall'alto soffitto una molteplice cortina di mantelli neri, che si srotolavan l'uno dopo l'altro, grevi, enormi, funerei, come una tenebra che rapidamente aumentasse. Non vedeva più nulla; era solo, sperso, nel silenzio assoluto, nell'assoluto buio. Con le dita fredde si stropicciò gli occhi, perchè si accorse che quel tenebrore pioveva in lui, non intorno. Allora, in un lampeggiamento di strappi rossi, cominciò a distinguere. A distinguere la finestra che inazzurrava, l'alta parete imbiancata, i mobili fermi, l'ombra... quell'ombra inamovibile. E vide una cosa orrenda: la faccia del cadavere, torta su la spalliera, convulsa in un sogghigno che pareva di riso. Allora, per la prima volta nella vita, il cuore accelerando e sostando, gli fece conoscere cos'era veramente la paura. S'agghiadò e retrocesse, brancolando con la mano che ricercava il lume. «Tremi! tremi! tremi!...» — gli urlava dentro sarcasticamente la voce nemica. — «No!» E si aderse in tutte le sue membra, di scatto, come davanti ad una provocazione. Si sentiva nei polsi, contro le tempie, battere il sangue a fiotti; gli pareva che la camera desse un continuo traballamento. Poi si provò a guardare un'altra volta verso quel riso che l'atterriva: e lo sostenne. Non era più riso, ma uno spasimo che aveva in sè, nello stesso tempo qualcosa di selvaggio e d'inerte. Provò a ragionare per darsi animo: — «È un morto, — si disse, — come ne ho veduti centinaia; il principio della polvere... insensibilità, silenzio, fine.» Ma non gli pareva che fosse un morto come l'altre centinaia, che non fosse materia senza uomo, che non tacesse, che non fosse finito. Avendo l'uso di separare il proprio cervello dagli errori della sensibilità, si mosse un'accusa ponderata, osservando: — «È l'anima tua che gli presti e sono i tuoi sensi alterati che propagano su lui una parvenza di vita. Ma questa è materia che solo pesa; è cosa morta, cioè senza possibilità, e non la devi temere.» Per analogia gli riapparve, come in una visione distante, il cavalluccio sardegnolo morto nella sala operatoria fra i veterinari che ridevano. — «Bada, — lo avvertì la voce — che il tempo corre.» Infatti ebbe la sensazione immateriale di qualcosa che continuamente correndo fosse continuamente più in là del pensiero; questa cosa era il Tempo. E smarrendosi nella sua fuga immensa, piccola e vana cosa gli parve il suo delitto, che non poteva nemmeno sospendere d'un attimo quel perpetuo volare. Gli avvenne di supporre che gli uomini, quasi per dare un senso al Tempo, avessero immaginato Dio. Questa osservazione, sorta in una specie di pausa interiore, gli sembrò logica; ma in essa v'era quel nome di tre lettere, che lo accese di ribellione, quantunque insieme s'accorgesse ch'era semplicemente una parola. — «Dio: la gran fiaba del mondo!... Ma tu che fai? sogni?» Possessore di sè, cauto, vigile, s'appressò all'uscio in ascolto; girò la chiave nella serratura, lentamente, perchè non stridessero gli ingegni; aperse uno spiraglio, v'appressò l'orecchio. Il filo d'aria gli produceva sul timpano una specie di ronzìo. Non altro romore si udiva per la casa dormente: appena quel rombo imprecisabile che nasce dalla presenza d'esseri vivi entro i muri d'un edificio. Uscì nel corridoio, giunse fino al pianerottolo, ed un senso di libertà quasi gioconda entrò nelle sue fredde vene, come quando si riacquista il respiro dopo un principio di soffocazione. — «Bada... — egli suggerì a sè medesimo — le tue scarpe...» Scricchiolavano. Un rumore minimo, che gli parve grande. Strisciò a passi lenti fino all'uscio della camera di Giorgio; l'aperse con cautela, ma interamente, per aver libero il passaggio allorchè tornerebbe con il cadavere su le braccia. S'avvicinò al letto per studiare in qual modo ve lo avrebbe disteso. Vedendo l'incavatura nei guanciali sovrapposti ed il solco profondo che la persona dell'infermo aveva lasciato nel lenzuolo, già gli pareva di recarlo su le braccia e di sentirne il rigido peso, che gli faceva scorrere dentro l'arterie pulsanti una vena di freddo sottile. Perchè la deposizione gli riuscisse più facile, rimboccò la coltre fino a mezzo il letto, poi cautamente rifece il cammino, strisciando lungo il muro, trattenendo il respiro, vigile e pauroso come un ladro. — «Se alcuno scendesse quand'io passerò col mio carico?...» — «Fa presto! — gli comandò la voce. — Fa presto!» Rientrò nella camera dov'era il morto, e s'attendeva quasi a trovarvi una trasformazione, o suppose, per mo' d'assurdo, la cosa più inverosimile: che il morto non ci fosse più. Era invece nella medesima positura, di sbieco traverso la poltrona, con il capo torto su la spalliera, le braccia pendenti, i pugni chiusi, le gambe unite per le ginocchia, simili a gambe di sciancato. Che orrore!... Come già era lontano entro la morte quel miserando corpo! Ed ora bisognava sollevarlo, avere il coraggio supremo di reggerne il peso contro il suo petto... Che orrore! Provò ad avvicinarsi; ma gravitò indietro, quasi resistendo ad una mano che gli avesse dato un urto per spingerlo su di lui. Allora, in quel punto, si ricordò che le sue scarpe scricchiolavano; e cavatele in fretta, cercò a tastoni presso il letto le pantofole di feltro. Si vide pronto, e gli parve d'un tratto che mai non avrebbe saputo varcare quella breve distanza. Sbarrò gli occhi e su le iridi provò una sensazione di freddo; si mise a considerare l'ipotesi che il coraggio gli venisse meno, che le sue braccia mancassero di forza per sollevare quel peso; un gran terrore s'aperse in lui, vuoto e freddo come un'enorme voragine. — «C'è dunque una cosa che tu non sappia osare? — No, impossibile! — Tu, che non credi alla divinità della morte, vacilleresti ora come una femminuccia? Chi mai t'impedisce di sollevarlo? Il Soprannaturale forse? — Non c'è Soprannaturale!... Avanti!» Alle sue ginocchia disse: «Avanti!» — al suo piede feltrato, e lo disse più fortemente al cuore che batteva. — «Ti perdi e la perdi... Chi?... Lei!» Allora la vide, che dormiva nel suo letto, immersa nelle sue trecce allentate, o forse che vegliava, sollevata sui guanciali, con il viso fra i palmi, a sua volta pensierosa di doversi uccidere. — «Avanti! È necessario!» Si

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Argomenti: solco profondo,    coraggio supremo,    chiarità lunare,    finestra troppo,    molteplice cortina

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