La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 28

Testo di pubblico dominio

il collo da le spalle, in un modo bizzarro. La bocca s'era messa a ridere, le gengive congestionate schiumavano. Per tutta la lunghezza del collo s'incordava una grossa vena tesa come un elastico: le mani convulse annaspavan nell'aria, i piedi si urtavano, producendo con i tacchi uno scricchiolìo sinistro. Gli colò su la giubba un filo di bava, e il medico lo deterse. Fuori, dietro i vetri leggermente appannati, brillavano stelle fra gli alberi, come lucciole in un cespuglio. Bella notte, odorata, ingemmata, ch'era piena di lembi d'azzurrità. «Quanti anni passeranno?...» — Anni voi dite?... — «Sì, anni.» — Prima di che? — «Prima che tu ritorni a vivere.» — Ma non vivo io dunque? — «No, è un incantesimo.» — Un incantesimo?... E l'altr'uomo, il medico, si chinò sopra il cuore del pagliaccio. Respirava, non più visibilmente, con un affanno lieve. — «Ho fame! ho sete! ho sonno! ho voglia di camminare! di fumare, di agitarmi, di ridere!» Egli si disse queste parole con veemenza, osservò questi suoi propri desiderii con chiarezza. Non poteva invece far nulla di tutto ciò; era fermo, incatenato lì, vicino a quella sembianza d'uomo, sotto il potere di una forza incombattibile, che li stringeva entrambi nella stessa notte. Fece sogni. Camminare d'Aprile per la campagna, lungo una bella strada soleggiata, respirando il buon profumo che mandano le siepi cariche di fiori... Scendere giù per un fiume impetuoso, a forza di remi, sentendo l'acqua insorgere gonfia e rapida sotto la chiglia... Addormentarsi in un bosco; vedere i falciatori mietere una messe; balzare in groppa d'un cavallo focoso per una prateria senza termine... Trovarsi preso nel tumulto di una folla, per una strada cittadina piena di fragore e di transito... volare con un treno velocissimo attraverso la doppia fila dei pali telegrafici... essere nella platea d'un teatro, presso i forni d'un'officina... dappertutto, dappertutto, dove ci si muove, ci s'incalza, ci si agita, si vive!... E gli pareva che mai più, mai più farebbe tutto questo, mai più godrebbe di queste inebbrianti gioie, perchè in quella notte, nel carcere di quelle quattro pareti, era accaduto qualcosa di enorme, qualcosa di finale, che soverchiava tutte l'altre possibilità. «Sei morto? No, non sei morto? — Allora non puoi rispondere?... Sì? mi puoi rispondere? — Che dici? — Ah, che t'uccida? — Ma se già t'ho ucciso? — No? non dici questo?... Allora che dici?... Parla più forte; così non mi riesce d'intendere. Ah... sei tu?... Ma chi sei?... E l'altr'uomo, il medico, toccava quella fronte già un po' fredda. «No, no... ucciderti non posso! Lo vedi bene che non posso. — Cos'hai detto? Un veleno? Ripeti; non hai detto un veleno?... Ma che lingua parli? Cos'è questo nome che dici continuamente?... — Ah, sì... Novella! — Ma perchè parli a quel modo, come se avessi la bocca piena d'acqua? Novella, hai detto?... Sì, sì...» E vide la sua faccia bella, null'altro che l'immagine della sua faccia bella, non direttamente, ma quasi rifranta in uno specchio, e lontana, perchè lo specchio stava lontano, e nebulosa, perchè l'aria per dove si mirava era un po' fosca. La vide con i suoi capelli disfatti, così lunghi e folti che la cornice dello specchio non tutti li conteneva, e gli sembrò di volerla guardare negli occhi senza potervi riuscire. Tutte le volte ch'egli cercava d'incontrare le sue pupille, quegli occhi sfuggivano, lo specchio andava sempre più lontano, finiva in un'albore, in una striscia, in un punto... Rimase un nome, un solo nome, vuoto anch'esso come una caverna, pauroso come un incubo: «Novella...» E l'altr'uomo, il medico, gli toccava il polso quasi fermo, il polso ch'era divenuto greve. «Ma io non ho paura! nessunissima paura! Sono libero! Cammino, se voglio; se voglio, rido! — È notte. — Ebbene, se è notte, che fa? — Sono leggero, mi sento agile: posso andarmene dove mi piace! — Fa buio. — Che importa? Domattina si leverà il sole; un bel disco rosso, arroventato come la bocca d'un forno. — Questo è il sole: un bel disco rosso che mi piace assai di vedere.» Il fantoccio si svitò un'altra volta, e questa volta parve che avesse una cerniera proprio nella schiena e che alcuno gli avesse dato un pugno proprio su la nuca, un pugno che tutto lo percosse. Le braccia, con i pugni serrati, si tesero verso le ginocchia, i due piedi s'allungarono quasi per dare un calcio nel vuoto, il ventre si piegò sotto le costole come un mantice vuoto, e trafitto nel fianco da una specie di pugnalata ultima, tutto il corpo ciondolò da quella parte: il mento gli si confisse obliquo contro la sommità del petto. Pareva che il burattinaio avesse dato uno strappo così forte da rompere tutti i fili, — e i fili, schiantando, fecer rumore. Un rumore diverso da tutti quelli che l'orecchio distingue, corto e fioco, ma più persistente che la vibrazione d'un metallo, un rumore atono, pieno di tutti gli altri suoni che insieme producono il ronzìo della vita. Allora nel fantoccio immobile tutto si trasformò visibilmente: il colore, la forma, il peso, l'abito, l'atmosfera che gli stava intorno: tutto. L'altr'uomo, il medico, dopo avergli lungamente cercato nel polso un battito che non c'era più, chinò l'orecchio sul cuore del fantoccio, ed arretrando con un balzo pronunziò distintamente questa sillaba: «No.» Tutta la casa, fra muro e muro, da' solai tenebrosi alle rombanti cantine, gli parve di súbito invasa da una musica furibonda... La canzone diceva: . . . . . . . «...e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli lontani... Cammina: la vita comincia domani, domani, domani...» X Ora, svanito il sogno, si ritrovò solo davanti a quel morto. Non più fantasmi assedianti, non più misteriose voci nè musiche immaginarie per la gran casa muta, ma un uomo calmo e logico di fronte ad un cadavere ingombrante. Con uno di quegli sforzi estremi della volontà, che riuscivano ad incurvare la sua forza come un duro metallo, giunse a ricacciare da sè quella torma di paurose allucinazioni, per affacciarsi con tutta la sua chiarezza mentale ad una sola necessità: quella di nascondere il delitto compiuto e dare alla morte di quell'uomo l'apparenza più naturale. Bisognava, con uno sforzo quasi eroico, annullare il proprio essere sensorio, non vivere per qualche attimo che di cervello; bisognava soffocare il rimorso, il ribrezzo, lo stordimento, la paura, distruggere in sè la memoria, il nome stesso di quel morto, per inscenare il quadro più verisimile intorno alla sua spoglia muta. Anzi tutto rimuoverlo da quella stanza, sollevarlo su le proprie braccia, e nel buio, senza rumore, traversando il corridoio, portarlo a giacere nel suo letto. Egli vide tutto questo con precisione, come se un altro lo dovesse fare in sua vece; poi sùbito, con quella rapidità d'azione che in lui seguiva il pensiero, comandò a sè stesso: — «Ubbidisci!» «Ubbidisci!» In tante ore della vita gli era stato necessario darsi questo comando breve. Ed era, non la sua stessa voce, ma la voce d'un tiranno interiore che glielo gridava contro i timpani, che inchiodava questa parola nella sua volontà a colpi di martello, facendolo tutto vibrare. Avesselo condotto su l'orlo d'un abisso e detto: «Balza!» — egli, senza retrocedere, avrebbe spiccato il salto. Avessegli detto: — «Cammina contro mille, perchè necessario è camminare!» — e contro mille, da solo, senza tremito, avrebbe camminato. Questa voce che in lui dettava era veramente il suo Dio. Il morto era nel mezzo della camera; la sua goffa ombra invadeva il pavimento, la parete; egli stava in piedi entro quell'ombra, sapeva di esservi, ed anzi gli sembrò d'averne i piedi avvinti, sì che fece uno sforzo muscolare per divincolarsi da lei. Ma l'ombra lo teneva in sè come una preda, l'avviluppava nel suo fermo tentacolo, nel suo mantello d'immobilità. Pensò allora che

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Argomenti: sforzo muscolare,    cavallo focoso,    disco rosso,    rumore diverso,    fantoccio immobile

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