La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 4

Testo di pubblico dominio

tono gioviale: — Sono in giro dalle cinque senza sparare un buon colpo. Ho tirato ad una lepre, ma i cani l'hanno mancata. — Tanto meglio; vuol dire che rimarrà per me. Entrò Maria Dora come un soffio di vento: — Oh, l'indiano! Lo chiamava così per il suo colorito scuro e per quell'aria di brigante che gli davan l'uose, la cartuccera, la giubba di frustagno. — Servitor suo, signorina, — mormorò il giovinotto, un po' confuso. — La Berta dice che il caffè bolle, ma non si vedono ancora nè Andrea nè Giorgio, — ella disse, facendo una smorfia con il musetto a quel ragazzone saldo e ruvido come un montanaro, che si era levato in piedi. — Non dovevate aspettarmi, — rispose Giorgio, entrando nel loggiato a passi un poco barcollanti e con le spalle ravvolte in uno scialle di lana. — Ordinate pure il caffè, mia bella cognatina; sono in ritardo e vi domando scusa. — Che scuse! neanche per sogno! — esclamò Stefano gaiamente. — Vedo che l'umore è buono, la cera discreta, e questo è l'essenziale. Il buon vecchio mentiva pietosamente per infondere in quel triste malato un poco d'allegria. Giorgio rispose con un gesto vago, e sedette nella poltrona di vimini foderata di cuscini, che Novella in quel mentre aveva sospinta verso di lui. Ora, senza farne le viste, ognuno guardava curiosamente l'infermo. Egli s'accorse di quell'esame dissimulato, ed un senso di molestia, quasi di pudore, gli alterò i lineamenti. Quel suo viso era emaciato, ma pieno di chiarore, quasi lo rendesse vivido la continua febbre. Una rada barba biondiccia gl'incorniciava il mento; aveva gli occhi dolci e smarriti, una bella capigliatura, dove l'umido solco della spazzola aveva lasciata una traccia brillante. Il colletto era troppo largo per il suo collo esile, ridotto a mostrare la sua tramatura di tendini come un cànapo consunto, e nello sforzo continuo del reprimere la tosse le vene flaccide si gonfiavano con un livido colore d'apoplessia. — Vuoi un altro scialle? — disse amorevolmente Francesca. — Grazie, sono coperto abbastanza; non ho freddo; grazie. Gli dava noia che si occupassero di lui, che avessero tante cure della sua salute; per il che cercava in mille guise di sviare il discorso. — Ecco l'ultimo!... — esclamò, vedendo entrare il Ferento. — Speriamo che la Berta non abbia lasciato versare il caffè. Quella Berta è tanto sciocca! E rideva, ma d'un riso così artificiale, ch'era pietà udirlo. Andrea gli battè una mano su la spalla: — Come ti senti? — Bene; quasi bene. — È primavera, — disse Andrea per dargli animo; — torna la gioventù! — Poeta!... — esclamò lievemente Maria Dora, con un ironico sospiro. — Se lei me lo permette, signorina... — egli disse ridendo. Andrea Ferento era tale a vedersi, che il suo primo aspetto muoveva in chi lo guardasse una subitanea curiosità, un involontario timore. Egli era d'alta statura, un po' rigido e ben complesso nelle membra dotate di virile giustezza: il mento segnato con forza, la bocca aspra, i baffi corti, precisa la maschera del volto, fermi gli occhi ed accesi d'una insostenibile fiamma, la bella fronte piena di sovranità. Questa imperiosa fronte, come soltanto hanno i ribelli e i dominatori, stupendo segno di forza, pareva che facesse nascere, che spingesse indietro l'onda maschia della capigliatura, già venata nel mezzo e su le tempie di qualche filo bianco. Un'eleganza sobria, una singolare nobiltà, trasparivan da ogni suo gesto; e come se la natura nel foggiare il suo calco avesse voluto con un segno d'imperiosità predestinarlo al comando, l'intera sua persona raggiava magnificenza. Nell'espressione del volto, in tutte le sue membra così pienamente virili, dominava il segno d'una volontà inflessibile come l'acciaio. Diritta, piombante fra i sopraccigli, aveva incisa nella fronte una profonda ruga. Tosto che lo vide, Marcuccio si levò e gli mosse incontro: — Vi aspettavo, professore, — disse con tono declamatorio. — Sono giunto alla fine del nono capitolo. Ho scoperto la teoria dell'equilibrio fra gli uomini e le piante, fra la pietra e l'uomo. Volete che vi legga? — Non ora, Marcuccio, — egli rispose benevolmente; — mi leggerai più tardi. Nel frattempo la Berta entrava, recando sopra un vassoio il caffè bollente, che spargeva in nuvole di vapore il suo delizioso aroma. Non appena Marcuccio ebbe veduta la rubiconda fantesca, (poich'egli l'amava d'un amor voglioso e tutto ne ardeva nel fuoco d'una tardiva pubertà), scioccamente le si mise intorno a vezzeggiarla e provocarla con insulse risate. In quel rinascere del tempo di primavera lo scemo sentiva le sue vene gonfiarsi d'una sensuale gioventù; la florida carne della ragazza ventenne come una droga selvatica lo riscaldava di bramosie. Nel giorno l'assaliva per gli angoli della casa, la notte passava lunghe ore dietro l'uscio della sua camera, guardando per la serratura e picchiando affinchè gli aprisse; per lei verseggiava con incoerenza e scriveva lunghe pagine d'amore. Ed ecco, lo scemo si mise a dondolarle intorno, canticchiando queste parole che aveva cucite insieme chissà con quale intendimento: «Quando la Berta scende al villaggio non ha il coraggio di guardare in faccia nè Pippo dritto, nè Pippo storto, nè il macellaro, nè il beccamorto. Maria Dora, nel mescere il caffè, ripeteva insieme con Marcuccio: nè Pippo dritto, nè Pippo storto, nè il macellaro, nè il beccamorto. Poi disse a Marcuccio: — Non vedi che la fai scappare? La Berta non vuol saperne di te. — Sorellastra, non parlare di quello che non sai! Vérsami il caffè. Maria Dora gli riempì la tazza, ed egli si prese con ingordigia un grosso pezzo di focaccia. — Maria Dora, — disse Giorgio, mentr'ella se ne andava dall'uno all'altro mescendo il caffè, — v'ho intesa cantare tutta la mattinata: avete una bella voce. — Sicuro, e farò la cantante! Perchè io, — disse con intenzione, guardando Andrea, — non son nata per il matrimonio... Affatto! Ecco il vostro caffè, signor Andrea. E farò la cantante, con dietro uno strascico di seta lungo due metri... Così dicendo ne faceva il gesto. — Bada che versi il caffè! — l'interruppe sua madre. — ... e una bella parrucca di color stoppa, le labbra dipinte, la faccia imbellettata, una scollatura fin qui... E voi, signor Andrea, mi manderete un bel cesto di fiori per la mia serata d'onore... Già, ma frattanto la mattina russate così forte che vi si ode fin nel corridoio. — Vorrei sapere dove hai imparato a discorrere in questa maniera sconveniente! — esclamò padre Stefano. — In convento, papà... dalle piccole suore! Si parlava così da mattino a sera, poi si pregava... quanto si pregava dalle piccole suore! — Che impertinente! — Volete un po' di crema, signor Andrea? È fresca. — Volentieri, — egli rispose. Intanto le osservò le mani. — Veh!... che manine ben curate avete ora! C'è dunque una manicure nel villaggio? Ella prestamente nascose la mano libera dietro il dosso: — Vi burlate sempre di me, signor Andrea... Ancora un poco discorsero insieme, poi ciascuno se ne andò per le proprie faccende; mamma Francesca nella guardaroba per curare i bucati, Maurizio con Stefano a battere la collina in cerca di lepri, Giorgio a intiepidirsi le spalle freddolose nel bel sole che allietava il giardino. Novella scese con lui, sorreggendolo mentre poneva il piede su la scalinata, e, quando furono in mezzo al viale, si volse per domandare: — Voi non venite, Andrea? — Finisco la mia sigaretta quassù, discorrendo con Maria Dora, — egli rispose, rimanendo ritto su l'ultimo gradino e fissando la bella figura di lei, che s'allontanava. Lo scemo erasi di nuovo rannicchiato nel suo cantuccio e rileggeva gravemente le pagine interrotte. — A discorrere con me? — fece Maria Dora. — Come possono interessarvi le mie chiacchiere? — Molto, forse... Ma, se avete altro a fare, posso

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Argomenti: sforzo continuo,    livido colore,    stupendo segno,    volontà inflessibile,    ragazza ventenne

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