La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 37

Testo di pubblico dominio

scendiletto sconvolto e l'accomodò con la punta del piede, resistendo per un poco all'urto dell'amante; poi si lasciò respingere. Uscirono. Camminando senza cautela rifecero il breve cammino, tenendosi avvinti, quasi tornassero dalla consumazione d'un delitto e andassero impuni, lievi, a goderne la preda. Su l'uscio, nell'entrare in quell'altra camera, che a lor parve gioconda, involontariamente si baciarono. Ell'aveva nella gola un riso singhiozzante, negli occhi una febbre luminosa, nelle vene un battito celere che le soverchiava il cuore. A lui pareva di averla rubata quasi dalle mani d'un avversario più forte, o trascinata via da un incubo, via dal talamo di un altro che gliel'avesse rapita. Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio dell'alto suo ramo il cantore solitario snodava, buttava i suoi gorgheggi con impetuosa magnificenza, come, nell'aria, brillando, lancia i suoi gettiti una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa metteva nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le vellicassero il ventre viscido per farla ridere o si fosse ubbriacata fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini. — Dammi a bere... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato: — brucio di sete! — Acqua? egli disse. — Non ho che acqua. — Sì. Prese la caraffa, il bicchiere, lo riempì fino all'orlo, poi, stillante, lo porse alla sua bocca. Ella ne ingoiò un sorso avidamente, facendo gorgogliare l'acqua nel deglutirla; poi guardò l'amante: — E tu non hai sete? — Sì; dopo. — No, bevi, — ella fece, prendendogli la mano che teneva il bicchiere e spingendola verso la sua bocca. Egli ubbidì. Bevve con ingordigia, con ira, due volte, poi guardò il bicchiere vuoto. — Ancora ne vuoi? — diss'ella. — Non più. — Respirò forte, soggiunse: — Lo sai ch'eri svenuta? Ma ella si coverse gli occhi, piegò il mento sul petto, e, come chi si ritrae da una visione paurosa: — Non parlarne... — pregò. — Che orrore! che orrore! Ho bisogno per un momento di scordarlo... Non parlarne più! Egli rimise a posto la caraffa, si andò a sedere sull'orlo del letto, curvo, stanco, tenendo le mani allacciate, fra le ginocchia, la fronte china. Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò vicino alla finestra, guardando fuori, curiosa, nella notte stellata. Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore; incominciava un dondolìo sonnolento per le alte cime degli alberi; dentro, nelle frasconaie, qua e là, un fruscìo prolungato, uno strepito scorrevole, come se vi rimbalzasse in mezzo, tra foglia e foglia, una lentissima pioggia di sabbia. Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l'albero gigantesco, un grande fiore di magnolia sfasciarsi repentinamente, cadere giù, lembo a lembo, ciascun petalo roteando come una spola, finchè si posava disfatto su la ghiaia luccicante. Quel fiore, lo sfacelo di quel grande fiore, l'assorbiva interamente, e, senza ben comprenderne il perchè, non poteva ritrarsi dal guardare l'opulento ramo, che per quella caduta seguitava a dondolarsi oscillando, e quel fiore sparso, rotto in frantumi, che giaceva sotto il vasto albero, come una bianchissima porcellana spezzata. E vide un piccolo rospo che vi saltellava nel mezzo, traversando la ghiaia. Senza volgere il capo ella chiamò per nome l'amante; ma egli non si mosse. Allora, affacciandosi ancor più, si mise a guardare, nella facciata bianca della casa, quella finestra poco lontana, dietro la quale, ma in fondo, contro l'opposta parete, c'era un uomo che dormiva per sempre nel letto illuminato, nel sudario del raggio lunare, di fronte alla magnificenza delle stelle. Vide, o le sembrò, che ne uscisse un fumo azzurro, torbido, il quale navigava per la notte, sperdendosi; e intimorita si ritrasse, onde non respirare nel vento neppure un átomo di quel fumo. Andò vicino all'amante, gli pose una mano sui capelli. Egli non levò il capo, non disse parola. Ed ella, tacendo, prolungava la sua carezza con una specie di voluttà, indugiando nei caldi capelli, un po' chinata su la sua pallida fronte. Infine disse: — Che ora è? tardi? Egli guardò l'orologio, distrattamente: — Le tre passate. — Hai sonno? — Non ho sonno; e tu? — Nemmeno. Guàrdami!... Andrea levò gli occhi. Entrambi, nel fissarsi, parvero maravigliati. — Che faremo? — ella disse, tremando fin nell'anima. — Non so. Stava ritta fra le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le spalle; egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e, senza toccarla, sentiva tuttavia l'impressione della sua pelle fresca e giovine, sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all'odore stesso di lei. — Tu l'amavi! — gli esclamò d'un tratto, con iracondia, senza levare il capo. — No... taci... — Sì, lo amavi! ora l'ho visto! lo so... — egli disse caparbio. Novella si chinò presso l'orecchio dell'amante, quasi baciandolo, e bisbigliava di continuo: — Taci... taci... Subitamente egli serrò le braccia intorno alle sue reni e l'attrasse, alzando la bocca verso la bocca di lei, che lo cercava. — Sei mia, ora? Ella rise, non colle labbra soltanto, ma con tutta la persona, con tutta l'anima rise. — Rispóndimi! — Sì... sì! — Ma per poco... — egli fece, tetro. — Come? — Ho detto: per poco. Adesso non c'è più divieto, e allora... — E allora? — ella interrogava con la medesima voce. Poi gli prese la faccia tra i palmi, e, quasi per soffocare ogni parola, su la bocca, affannosamente, lo baciò. E rimasero avvinti in quel bacio, disperati, sitibondi, colmi fino alla gola di orrore e di amore, sentendo che in quella voluttà esecrata una coscienza invisibile, quasi, un Dio, li malediva... . . . . . . . ... poi, lontano, per l'ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti, quasi una colonna di fumo, che soffiasse non da un incendio ma da un gelido remoto mare, e videro per l'universo effondersi quella specie di scolorimento, quel brivido, quella bianca tenebra che precede il salire del giorno. Un grande velario, di mussola o di tulle, passava su le migliaia di stelle per diminuirne lo splendore; una chiarità nasceva nell'oriente concavo; la notte a poco a poco s'incanalava in quella zona pallida, lasciando portare dal vento le sue gonfie spirali di fumo. Piccole stelle morte, randagie, vi cadevano dentro, scomparivano, lasciavan un solco impercettibile nello spazio dov'erano a migliaia; le grandi costellazioni, luminose come navigli notturni, affondavan nell'oceanica immensità; la luna colava a picco imbiancandosi nella voragine d'una nuvolaglia simile ad un cratere. Lontano, all'alba sopravveniente, un gallo cantò. Ilare, mandava in alto la sua chiacchierata pretensiosa, lisciandosi forse il bel pennaggio lustro, come una donna mattiniera, che alla finestra péttini cantando la sua liscia capigliatura. Entrava, con l'odor fluviale dei narcisi, con l'abbrividire delle foglie che si destavano, un'ondata d'aria fredda, quasi visibile, che faceva il giro della stanza, come un vortice... Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la fasciò sino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli occhi pieni d'ombra disse a lei che non parlava: — Dormi?... SECONDA PARTE I Tancredo Salvi arrivò il giorno appresso in villa, non appena gli ebbero telegrafato ch'era morto il suo fratellastro. Giunse in tempo esattamente per i funerali, ma sopra tutto per aver notizia del testamento: il che gli stava molto a cuore. Dalla prima giovinezza, dal tempo lontano in cui Giorgio Fiesco era partito dalla casa del patrigno in cerca di fortuna per il mondo, non s'erano quasi mai riveduti, nè alcuna fratellanza era tra loro, bensì per costumi e per indole una invincibile avversione. Venuta a morte la madre comune, Tancredo aveva brigato in mille guise

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