La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 21

Testo di pubblico dominio

sono davanti a un'agonia. La donna che amo, il figlio che ho fatto nascere, e la mia sorte che brilla: un gruppo formidabile di energie rimane fermo, senza possibilità di andar oltre, davanti ad un rantolo che si prolunga. O Evangelisti, non credete voi che si possa talvolta sopprimere una vita semispenta, per salvarne altre, pulsanti, gaudiose, di là da quel sepolcro? Non ammettete l'uomo eretto a giudice solo ed eroico di sè stesso, l'uomo anarchico, superiore alla legge pattuita, che usa d'una sua forza spaventosa, ed in silenzio, nel buio, toglie di mezzo l'ostacolo che lo divide dalla sua felicità? Chi me lo impedisce?... Cristo? — Cristo era un uomo come me: io non gli credo. La legge? — La legge è stata fatta da uomini come me; non rappresenta che la necessaria catena; io sono più forte: la spezzo; più scaltro: la évito. Forse la coscienza? — Essa è paura, è viltà, è un terrore atavico dell'uomo: bisogna insegnarle a volere con inflessibilità quello che davanti alla vita, e non davanti agli uomini, è giusto. A che servirebbero questi veleni minutissimi, rari, lenti, senza traccia, che crescono pure nella vegetazione della terra, se la natura stessa non avesse riservato all'uomo la possibilità di propinare una morte nascosta? Che sarebbe l'amore in sè medesimo, se per lui non fossimo capaci di compiere qualche atto di eroismo crudele? Non contro me posso infierire, poichè la mia morte non li salva, anzi li perde. Ho amata una donna non mia e l'ho resa madre: mi trovo nell'impossibilità di liberarla dalla sua concezione, il che sarebbe altrettanto delitto. Lascerò ch'ella si uccida? O giudici, sarò così vile da non fare con risolutezza tutto ciò che il mio coraggio può fare per lei? Forse avrei dovuto, quando ne sentii nascere il primo palpito, soffocare in me questo inevitabile amore. Ma tutto si può fare al mondo, fuorchè non amare ciò che si ama. Ora, contro il diritto a vivere di queste due creature, che sono ormai la mia sola ragione di essere, sta un'agonia, sicura ma tenace, lenta ma irremediabile... Due giovinezze davanti ad un sepolcro, due ricchezze davanti ad una miserrima povertà. Fra queste cose, il coraggio della mia mano, la stilla invisibile di un veleno, il martirio nascosto della mia coscienza... Ebbene, in tale dilemma, è più onesto concepire la coscienza come una schiavitù paurosa, che rifugge dal delitto per il solo terrore de' suoi fantasmi, o concepirla come un coraggio efferato, che avvinghia quei fantasmi e li soffoca per la felicità di chi ama? O voi, che invisibili e presenti squassate intorno alla mia coscienza i vostri mantelli neri, ascoltate ancor questo dalla mia voce che non trema: — Io feci olocausto di me stesso al mio amore d'uomo, al mio dovere di padre, e se, per giudicare un colpevole, può esservi un altro giudizio che non l'oscuro confessionale o la teatrale aula d'una Corte d'Assisi, questo giudice libero mi dirà: — «Tu sei stato un anarchico ed un santo. Se puoi, vivendo, sopportare il tuo delitto, la sua potenza medesima ti assolve. Di fronte ai mediocri taci e nascondi, perchè i mediocri mai ti comprenderanno.» Allora, nell'alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel silenzio dalla sonora muraglia, udì suonare la Canzone Disperata sul violino singhiozzante dello scemo. Questa canzone diceva: «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti, portando il mio scheletro su la schiena; «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le mani... «Cammina!... — mi dice ridendo — la vita comincia domani. «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? — Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome: l'Inutilità. «— Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina, «tremante, sperduta, tremante — nel solco del letto profondo... «Perchè, se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel mondo? «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti, e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli lontani... «Cammina: la vita comincia domani, domani, domani... La Canzone approssimava, tragica, lugubre, nel silenzio della notte, finchè, dietro l'uscio, si spense. Allora egli udì le nocche dello scemo, che rideva, battere contro la porta, dicendo: — Aprimi. Andrea, rapidamente chiuse nell'armadio le minuscole ampolle dei veleni che stava esaminando; poi non rispose, non aprì. — Apri dunque! — sollecitava lo scemo, girando la maniglia. Ma la porta era serrata nell'interno a chiave. — Che vuoi? Sorda e cocciuta la voce ripeteva: — Aprimi! Allora Andrea girò la chiave nella serratura e si ritrasse per lasciarlo entrare. Marcuccio, col manico del violino stretto nel pugno, la bocca torta da quel suo riso obliquo, s'avanzò fin nel mezzo della camera guardandosi attorno, poi disse: — Novella piange. — Come lo sai? — Piange, — ripetè l'altro con iracondia. — Come lo sai, domando? — L'ho veduta io, per la toppa. Sì, l'ho veduta. È nella sua camera, seduta in un angolo, e singhiozza. — Ebbene? — fece Andrea dopo una pausa. — Volevo dire che piange, — ripetè costui, ingrossando la voce. — Allora tu guardi per le serrature? — Sempre. — Perchè? Accentuando il suo riso atono, egli fece con la mano un gesto vago: — Per la serratura ho veduto la Berta in camicia, molte volte... La Berta si lega le calze con due nastri rossi, quassù... — e segnava l'alto della coscia. Andrea lo fissò negli occhi, attentamente, con un senso di maraviglia e di pietà. — Non puoi dormire, Marcuccio? — Sono le notti lunghe della primavera... gli uomini che han qualche sogno nell'anima non possono dormire. — Poi fece schioccare le labbra e soggiunse: — Mi piacerebbe dormire con la Berta. Senza che lei se n'accorga io la vedo ogni sera per la toppa, quando si spoglia. È grassa. — Allora, — disse Andrea severamente, — hai guardato per la toppa anche al padiglione di caccia, alla Boscaiola, una volta... Marcuccio si mise a ridere con sguaiatezza e contorse la bocca. — No: sono salito sulla tavola di pietra ch'è da un lato, e, stando in piedi, ho potuto guardare in giù, verso l'interno della capanna. Sì, e c'era Novella... — Non è vero! — Sì, che c'era! — incalzò lo scemo. E segnandolo a dito soggiunse: — Con te. — Bada, Marcuccio! guai se lo ripeti!... — esclamò Andrea, afferrandogli ruvidamente le mani. — Novella era quasi nuda, e tu... ahi! non mi far male!... tu la coprivi con le margherite che avevate raccolte... ahi!.. sul petto... ahi!.. la coprivi... — Guai a te, se ripeti queste cose bugiarde! Hai visto male. Io non c'ero. Lei neppure non c'era. Intendi? E forte lo scuoteva per le braccia, mentr'egli, caparbio, insisteva nell'affermare. — Intendi?... — No, no... tu eri! lei era! Ed erano belle... com'erano belle quel giorno... le margherite... ahi! ahi! sorelluccia... le margherite!... Allora Andrea lo afferrò per le spalle, in guisa da fissarlo ben negli occhi e disse: — Ascolta, Marcuccio. Tu, quel giorno, hai veduto un sogno; ed i sogni non si devon mai ripetere ad alcuno, perchè il parlarne porta disgrazia, m'intendi? E guai, guai a chi li racconta, i sogni!... Parlava imitando il suo linguaggio, per essere meglio inteso; lo scemo apriva la bocca attonitamente: — Ah, sì?... — Certo. E se tu narrerai queste cose bugiarde, io dirò a tutti che bisogna bruciare i tuoi libri, perchè sono falsi. Così non avrai alcuna gloria. Capisci, Marcuccio?... la gloria!... Egli tremava, tremava, e balbettò: — Sì, la gloria... Ma se non dico nulla? — Di che? — Dei sogni... — Allora, Marcuccio, tu avrai... — Ma in quel mentre, udendo rumore, Andrea si volse: — Chi è? La voce di Stefano rispose: — Sono io: Stefano. Si può? — Entrate, entrate. — È la Canzone di Marcuccio che mi ha fatto scendere. — Poi disse con un sorriso

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Argomenti: letto odoroso,    gruppo formidabile,    terrore atavico,    stilla invisibile,    teatrale aula

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