La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 27

Testo di pubblico dominio

braccia e lo portò a giacere nella poltrona Poi riaccese il lume. IX Riaccese il lume per guardare il suo delitto. Come uno di que' grandi fantocci meccanici che il burattinaio butta sopra una scranna, flaccido e penzolante, quando ha finito di fargli recitare la sua parte, così appariva l'uomo semisdraiato nella fonda poltrona, con il capo recline da un lato, il mento sovra una spalla, le braccia cadenti fuor dai bracciuoli, le gambe divaricate. Respirava; il suo respiro era visibile, anzi forte. Ogni tanto un tremito assaliva una di quelle mani ciondolanti, ne scuoteva il polso convulsamente, poi quel tremito correva su per il braccio, dando contro la spalla un urto secco. Parimenti i suoi piedi ogni tanto si squassavano, facendo flettere le ginocchia in dentro come fossero gambe di sciancato. Una ciocca di capelli gli era caduta su la fronte, empiva un'orbita molestando la palpebra chiusa. L'ombra della poltrona e di quel corpo informe ingombrava il pavimento irraggiato, saliva obliqua per lo zoccolo del muro. Quando Andrea Ferento ebbe raccolta la siringa, cadutagli a terra nella fretta di sorreggere lo svenuto, quando l'ebbe lavata e rasciugata, ne staccò l'ago sottile, prese un panno e si mise a strofinarlo. Ogni tanto lo provava su l'unghia, quasi per accertarsi che la punta non si fosse rotta. Poi lo esaminò da presso, contro il lume, strizzando l'occhio, e lo mischiò in un mazzo di aghi simili, più grossi e più minuti, ch'erano involti in una carta velina, e li racchiuse dentro una scatola. Riordinò le boccette nell'armadio, avendole tappate con la maggior cautela, poi si volse tranquillo, come se avesse condotto a termine un suo lavoro consueto, e macchinalmente guardò l'ora. Era di poco trascorsa la mezzanotte; ma egli forse non vide le sfere. Allora fece automaticamente un giro intorno alla camera, quasi radendo la parete: si fermò presso la finestra, affondò nei buio lo sguardo vacuo, poi retrocesse verso il mezzo della stanza, dov'era coricato il fantoccio tragico nella poltrona profonda, e, fermo in una specie d'insensibilità, rimase a guardarlo. Respirava: il suo respiro era visibile, tuttavia meno forte. Guardò l'ora un'altra volta, quasi contasse i minuti che ritardavano la morte. Un rombo, lontano, vicino, gli saliva nel cervello impedendogli di pensare. Allora poggiò l'orecchio sul cuore del fantoccio e pronunziò queste due sillabe distintamente: — Batte. Gli raccolse le due mani che penzolavano; il contatto della sua pelle gli dette una sensazione molesta, sicchè gli parve miglior cosa lasciarlo stare. Le due mani ricaddero su le cosce, facendo un rumor soffice come se fossero inguantate, e più non si mossero. Nel suo cervello, qualcuno, forse una voce estranea, pronunziò questa parola quietamente: «La bara.» Egli da prima cominciò a pensarne il solo nome, poi vide la forma della cassa di legno, infine si rese conto che c'era un morto, una lunga forma stecchita, trasudante un lezzo nauseabondo, che bisognava stendere là dentro, nella cassa di legno, nella bara. Morti, egli ne aveva ormai veduti un gran numero; e cominciò a ricordarsi dei tanti cadaveri che aveva toccati con la sua mano ferma, sezionati con la sua mano veloce, e rivide certe fisionomie particolari, delle quali si rammentava in quell'attimo con una precisione sorprendente. A lui, medico, il cadavere non faceva paura; negli ospedali e nelle cliniche s'era avvezzo a parlar forte, a ridere qualche volta vicino ai morti. Ma ora gli sembrò inconsueto, strano, fin questo nome di cadavere; gli parve per la prima volta che morire volesse dire qualcosa più che rimanere immobili e freddi. Siccome l'uomo spento gli era quasi familiare, concepì mentalmente l'orrore della carogna, poichè gli era occorso di vederne assai meno. E per una di quelle astrazioni del pensiero che talvolta ci avvincono quando siamo fortemente presi dal senso d'un'angoscia non ancor bene determinata, gli passò negli occhi l'immagine di un povero cavalluccio che aveva una volta veduto, quando era studente ancora, nel visitare una scuola veterinaria. Era un cavalluccio sardegnolo, decrepito, che d'animale vivente non conservava più se non una parvenza macabra e grottesca. Era stato venduto forse da un carrettiere per il valore della sua pelle, perchè, nemmeno a forza di bastonate, non si poteva più mandarlo innanzi d'un passo. La Scuola lo aveva destinato ad un ufficio non comune: quello di servir da paziente in tutte le operazioni che convenisse mostrare praticamente agli allievi veterinari. Su la sua povera pelle, scucita e ricucita chissà mai quante volte, avevan provato e riprovato per ogni verso tutte le operazioni che l'arte chirurgica insegna. Per quel po' di paglia e di fieno che gli davano di tempo in tempo, durante le sue convalescenze, gli avevan aperto il ventre, fessa la gola, semiaccecati gli occhi, recisi i tendini, sforacchiate le spalle, passandovi dentro certi lunghi tubi che parevan aghi da calza infitti in un gomitolo di stoppa. Ad operazione finita, lo ricucivan su alla bell'e meglio, poi lo cacciavano a guarire davanti una mangiatoia semivuota. Camminava come se avesse le quattro zampe di caucciù, e nell'andare dalla sala operatoria fino alla stalla cadeva tre o quattro volte su le ginocchia insensibili... Proprio quel giorno ch'egli lo vide, nel mezzo d'un'operazione il cavalluccio morì. E per tutta la sua vita egli non aveva potuto scordar l'orrore di quella povera piccola carogna, su la quale i veterinari armati di bisturi sanguinanti s'erano messi a ridere. Ora lo rivide, in un lampo fugace, quel decrepito cavalluccio sardegnolo, rappezzato come un mantello da mendicante, ch'era morto legato, senza poter tirare un calcio, rovesciando appena le froge violastre su la dentatura gialla. Ascoltò. Respirava; il suo respiro era visibile, ma fioco. La pelle del viso mutava colore, schiarandosi; la bocca si faceva un po' tumida, gli occhi si enfiavano, benchè serrati. — Giorgio... Egli si provò a profferire il suo nome; non lo disse, ma gli parve di averlo detto: «Giorgio». Questo nome era stato una cosa enorme nella vastità interiore del suo mondo; ma ora pareva un nome strano, stridente, una parola quasi anormale, vuota come una caverna. Gli sembrava che fosse decorso un tempo immemorabile dal principio di quella sera. «Che volete? che volete?... Sì, l'ho ucciso!» — gridava, urlava a' suoi giudici invisibili, ma con la sola voce del suo spirito, — mentre in verità gli pareva di gridare. Nel suo dualismo interiore si ricordava di averlo ammazzato, e non sapeva se fosse morto; provava uno strazio spaventoso, ed era tranquillo come un ebete; aveva la sensazione illusoria di essere davanti alla stessa persona, che fosse viva e morta nel medesimo tempo. «Sì, l'ho ucciso; io! Sì, vedete: con questa mano; io, con questa mano; io!» Era immoto, e gli pareva di agitarsi, di urlare, scagliando il pugno contro un'assemblea di avversari, contro un comizio di giudici che l'accerchiassero da ogni parte. «Fratello, rispondi per me! Lévati e rispondi: — Non era questo il mio diritto?» Intanto, nel suo dualismo interiore, l'altra parte di lui spiava minutamente i segni della morte. «Fratello, rispondi, rispondi!...» Poi gli parve che la casa si destasse, e tutti accorressero, balzati fuori dai letti sconvolti, le donne, gli uomini, scapigliati, e dietro l'uscio gridassero: «Apri! apri! vogliamo vederlo innanzi che sia morto... Apri!» E lo scemo, fra loro, in una camicia da notte che lo faceva sembrare uno spettro, la guancia poggiata contro il violino, suonava con furia, con strazio, finchè le corde saltassero, la Canzone Disperata... Erano fuori dalla porta in gruppo, accaniti; squassavano l'uscio, gridando: «Apri!» L'altr'uomo vigilò, in ascolto, e non intese rumore. Su la poltrona il pupazzo tragico si torse, come se avesse dentro un perno che gli permettesse di svitare il busto dal ventre,

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Argomenti: due mani,    tempo immemorabile,    corpo informe,    fantoccio tragico,    povero cavalluccio

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