La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 46

Testo di pubblico dominio

sfumata eredità. E seduto nella medesima poltrona, in quella profumata sala dove non c'era più nessuno, immaginava con iracondia le sue vendette future. Ma poco dopo entrò lo scemo, s'accocolò in un angolo e, preso l'archetto, incominciò ad eseguire sul violino quell'unica dolorosa Canzone ch'egli sapeva. Arrivato ad un certo punto, s'interrompeva sghignazzando, e ricominciava da capo. — «Di', scemo? seguiterai per un pezzo a farmi questo bel concerto?» — -mormorò Tancredo a mezza voce. Ma lo scemo, che aveva un udito finissimo, lo intese, o intese almeno l'epiteto, del quale si corrucciò. Scese dalla seggiola, e con il violino in pugno gli venne davanti, minaccioso. — Come ti chiami? Chi sei? Cosa fai qui? Vattene! E con l'archetto gli segnava l'uscio, protendendo sul collo turgido la faccia incollerita. Per prudenza Tancredo si levò in piedi e fece atto di ubbidirgli, ma riparatosi dietro la poltrona cominciò a fissarlo. — Dica, professore... non facciamo scherzi! Professor Marcuccio, per carità... si calmi, professore! Accortosi che quel nome produceva un buon effetto, glielo dispensò a manate: Professore, professore... — Non ti piace la musica, eh? — lo derise Marcuccio, battendo l'archetto sul violino. — Così così... — Allora forse preferisci che ti legga una poesia? — Ecco, — disse Tancredo con longanimità, — preferisco. Lo scemo depose il violino, trasse di tasca un quaderno scarabocchiato di righe storte, si pose nel mezzo della stanza, e imitando gli oratori che aveva uditi quel mattino al camposanto, cominciò a leggere: «Sette matasse di lana di sette colori che sono: il bianco, il giallo, il verde, il rosso, il blu, — gli altri due non so più — hanno filato le monache per fare il lenzuolo di morte ai morti del paese. Sette matasse di lana, perchè si marita domani il maniscalco che batte, che picchia, che batte, che picchia, sui ferri, tutta la settimana. Sette matasse di lana. — Ti piace? — Sì, professore, è molto bella. Come dice?... «il rosso, il giallo, il verde, il bianco, il blu, — gli altri due non so più...» Bello! molto bello! E Tancredo batteva le mani. — Silenzio! — impose lo scemo. E ricominciò: «Sette rocchetti di refe, di refe bianco e di refe turchino, hanno filato le monache per fare una vesta da festa, tutta bianca e tutta rosa alla Berta che va sposa: alla Berta rossa, che ha la pancia grossa. — Questa è migliore! — applaudì Tancredo. — «Alla Berta rossa, che ha la pancia grossa...» — Un capolavoro! E piano piano, mentre lo scemo stava per attaccare una terza strofa, scivolò fuori dalla sala, scese nel giardino, e poichè l'avevan lasciato solo risolse di fare una bella passeggiata. Lontanò in mezzo alle campagne, ragionando fra sè medesimo su quello che gli convenisse fare. Per fortuna il suo cervello era una miniera inesauribile d'idee, nè a lungo indugiò prima di guidare le sue ricerche verso la persona che precisamente gli occorreva. « Ecce homo! » — esclamò d'un tratto, pronunziando a fior di labbro questo nome: — Dandolo Zappetta. Costui era un morto di fame, al quale Tancredo sapeva di aver pagato cinque o sei pranzi, nonchè un numero infinito di mezzi toscani. Era piccolo piccolo, magro magro, giallo giallo, con due piedini da bamboletta, un giacchettuzzo nero, che pareva di raso, tanto s'era fatto lucido, un testone maggiore del suo corpo, con una strana calvizie che gli occupava soltanto la chierica e la sommità della fronte. La sua bocca era sottile, diritta, come una di quelle righe segnate nei libri al finire d'ogni capitolo, e vi teneva sempre infisso un cotal suo bocchino d'un certo legno da lui vantatissimo, qualcosa di raro come quei legni aromatici che i primi navigatori Egizi riportarono dal favoloso regno di Punt. Era povero come Giobbe, ma tuttavia possedeva un orologio di similoro, più bello che l'oro, tre anellucci da giovine puerpera, due catene d'argento, un portacerini cesellato, un portasigarette d'un altro legno quasi leggendario, venuto forse da un mondo più lontano che il lontano reame di Punt, e mille altre bazzecole d'un valor grande invero, che formavano i beni della sua felicità. Quest'uomo singolare, non c'era cosa che non avesse veduta, udita, saputa, o non sapesse fare: ma non faceva niente. Viveva in due camerette al quinto piano, ingombre zeppe di collezioni di farfalle, tra un lusso incredibile di vasetti e scatolette, che racchiudevan lucido per le scarpe. Verso il tempo del pagar la pigione assumeva qualche vago mestiere; nel resto dell'anno la sua professione era quella di raccoglier farfalle, nonchè di rendere servigi a' suoi numerosi amici. Chiunque avesse bisogno di lui non doveva che dirgli: Dandolo... E Zappetta lo faceva. Che poi lo pagassero, trovava ottima cosa, come del restare a mani vuote non si doleva gran che. Aveva tuttavia un debole, un debole che gli era nato forse dal grande consumo di romanzi polizieschi, ed era infatti la passione del bel delitto, cosa della quale stava sempre in agguato, come il can da fermo quando apposta la selvaggina. A tal uopo serviva di quando in quando, e non per lucro ma solo per amore, in una agenzia di poliziotti privati, nobil gente quant'altra mai vide il tempo nostro fiorire, tra la quale Dandolo Zappetta godeva di una piccola celebrità. « Ecce homo! » — esclamò di nuovo Tancredo benedicendo in cuor suo la natura per avergli dato un cervello così fecondo. E la mattina seguente, licenziatosi dagli ospiti con solennità, verso le dieci risaliva in treno. Era una giornata calda, con minacce di temporale. Guardando fuori dal finestrino Tancredo ripensava quante mai cose non eran accadute in que' brevi due giorni, e gli avvenne di riflettere come talvolta si vada incontro ad una fosca tragedia senz'averne il più lontano presagio. Nonostante il suo cinismo apparente, quel buon Tancredo era debole di sua natura, ed ora si sentiva tratto a veder sangue, veleno, assassinio dappertutto. Viaggiando per quella nubilosa giornata si perdeva in lunghe fantasticherie sui delitti e sui veleni dei Borgia. Quando arrivò a casa, Caterina, ch'era occupata nello stirare le sue camìce, depose il ferro e gli fece un'accoglienza festosa. — Ben tornato il mio bel signore! Che notizie mi porti? — Incendio! — egli esclamò tetramente, buttando la valigia sopra una seggiola, che si capovolse. A gambe levate scapparono Tresette e Patcioulì, i due gatti soriani ch'essi tenevano per lor diletto a far le fusa intorno al focolare. — Fa piano, tesoro... — lo esortò Caterina. — Quando entri tu, entrano i vandali. Ebbene, cosa vuol dire incendio? Non ti capisco; hai ereditato almeno? Tancredo si soffiò due volte nel palmo della mano: — Ecco l'eredità! — Me lo immaginavo, — ella fece senza grande rammarico. — Figùrati se quegli egoistoni pensano a te! — Ma, ma, ma... — l'interruppe Tancredo. — non è detta l'ultima parola! — Davvero? E come? Racconta. — Ora non ho tempo; devo uscire sùbito. — Almeno dammi un bacio, bellezza d'oro. Tancredo, col dorso della mano, le vellicò la guancia grassa, e questo fu il bacio. Poi si rimise il cappello, ed uscì. Trovato Saverio in un certo caffè dove questi bazzicava ogni giorno, lo mise al corrente in quattro parole di tutto quanto aveva potuto raccogliere intorno ai fatti già saputi, nonchè del progetto che aveva di spedire colaggiù Dandolo Zappetta. Saverio trovò eccellente l'idea di mandarvi Dandolo, e, quanto alle spese, risolsero di farle a metà. — Non ti sei per caso lasciata sfuggire una parola di troppo?? — domandò Saverio. — Io? Mi conosci male. Neanche una sillaba! Tosto s'avviarono verso la casa di Dandolo Zappetta, e saliti con fatica i suoi cinque piani tirarono il cordone del campanello. — Chi è? — fece dal di dentro la voce affabile dell'omino. — Amici, — risposero i due tamburellando

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Argomenti: numero infinito,    quattro parole,    refe bianco,    miniera inesauribile,    testone maggiore

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