La favorita del Mahdi di Emilio Salgari pagina 27

Testo di pubblico dominio

una specie di bassa galleria che s'addentrava nelle viscere della terra, le cui pareti erano coperte da bizzarre sculture assai sporgenti. Proprio in quell'istante i beduini tornavano alla carica a passo di corsa colle lancie in resta, animandosi l'un l'altro con selvaggie urla di guerra. Temendo d'essere scoperto si mise a strisciare innanzi a tastoni, salendo e scendendo dei cumuli che non riusciva bene a distinguere che cosa fossero, ma che di spesso erano sì accuminati e taglienti che gli ferivano le ginocchia. L'atmosfera era calda, pesante, viziata e pareva certe volte che mancasse sicchè l'arabo esitava a procedere temendo di morire asfissiato. Non udiva allora più le grida selvaggie dei beduini, ma per l'aria udiva certi svolazzamenti, certi stridi che facevangli supporre di trovarsi in mezzo a bande di pipistrelli; anzi provava sulla faccia il freddo contatto delle loro ali e più d'uno s'aggrappò alle sue vesti. Dieci e più volte s'arrestò, per paura di smarrirsi fra le gallerie che si succedevano le une alle altre sempre più tortuose, ma la speranza di trovare uno sbocco e la tema di ricadere nelle mani di quel mostro che chiamavasi Notis e nelle mani della vendicativa Elenka, lo spingevano suo malgrado innanzi. D'un tratto si trovò in presenza di una parete che chiudeva il passo, ma girando per di qua e per di là trovò una apertura per la quale si cacciò e sbucò in una caverna di quindici metri di diametro richiarata da una vaga luce che scendeva dall'alto. Si guardò attorno sorpreso. Vide dei sepolcri fregiati d'ibis religiose e di piante di loto sacro, e negli angoli dei coccodrilli mummificati, infissi nel petto come usasi fare, cogli scarabei che voglionsi conservare, e avvolti per metà in istuoie. Sul terreno vi erano monti d'ossami alcuni appartenenti ad animali ma molti altri a uomini. L'arabo non si smarrì. Aggrappandosi alle sporgenze delle pareti, aiutandosi colle mani e coi piedi, giunse a una gran fessura dalla quale veniva quel po' di luce e si trovò all'aperto in mezzo a sei o sette sepolcri sormontati da tarbusch colossali. A cento passi da lui v'era la foresta e a duecento vi erano le tende e i cammelli dei beduini. Un dongolese solo vegliava, appoggiato alla sua hàrba, fumando flemmaticamente in un gran scibouk malandato. —Se posso fuggire senz'essere visto da quell'uomo, sono salvo, mormorò l'arabo. La notte cala, la foresta è vicina e i beduini sono nel sotterraneo. Mi caccierò in mezzo ai cespugli e sfido i cani a trovarmi. Ah! Elenka, guai a te se riesco a sorprenderti nel tugul dell'adorata mia Fathma! Si gettò contro terra e si avanzò a carponi tenendosi dietro ai cumuli di rottami, ma il dongolese aveva buoni occhi e vegliava attentamente. —All'armi! gridò egli. Gli sparò addosso una pistolettata che aveva tratta rapidamente dalla cintura. Abd-el-Kerim evitò la palla abbassandosi bruscamente, poi si rialzò e si precipitò in mezzo alle boscaglie, nel momento istesso che Fit Debbeud e i suoi beduini saltavano fuori dalla galleria. Non si volse nemmeno per vedere se l'inseguissero. Prese un sentiero e si die' a fuggire rapido come una saetta, ora correndo come una palla di cannone e ora deviando e saltando, lacerando i cespugli, lasciando mezze vesti fra le spine, cozzando o incespicando fra i rami e le radici che le tenebre non gli permettevano ben di distinguere. Udì dietro di sè le voci rauche dei beduini poi tre o quattro colpi di moschetto ma non s'arrestò. Percorse così più d'un chilometro e stava per rallentare la corsa quando si trovò improvvisamente dinanzi a una donna che veniva avanti a gran passi. —Fermati, Abd-el-Kerim! esclamò quella donna con tono minaccioso. L'arabo dette indietro e barcollò come se fosse stato colpito da una coltellata. Dinanzi gli stava Elenka, tutta trafelata, sconvolta, colle mani tese innanzi come per arrestarlo. —Tu! Tu! ruggì egli. Tu, Elenka! —Sì, Abd-el-Kerim, ancora io che giungo in tempo per salvarti! L'arabo la guardò cogli occhi strambasciati e nei quali balenava una fiamma d'ira, d'immenso furore. —Fermati, Abd-el-Kerim! ripetè la greca. Dove vai? Dove fuggi? Chi ti liberò?… —Sciagurata!… Che hai fatto dell'almea? chiese l'arabo con voce strozzata. —Non chiedermi conto di quell'odiata rivale. Vieni con me, ritorna fra le braccia della tua Elenka che tanto ti ama. Un'ondata di sangue montò alla testa dell'arabo: si scagliò sulla greca ebbro di collera e cercò di rovesciarla, urlando come una belva inferocita. —Dov'è l'almea? Dov'è l'almea? Tutti e due rotolarono l'un sull'altra. La greca se lo strinse contro il seno e invece di difendersi gli stampò sulle labbra un ardente bacio. —Ti odio e ti amo immensamente! esclamò ella delirante. Quel bacio fece sull'arabo l'effetto di un morso di serpente. Le sue mani nervose si strinsero attorno il collo di cigno della greca ed ebbe per un momento l'idea di strozzarla. Ma s'arrestò subito senza forze e senza coraggio e cercò d'alzarsi spaventato, inorridito e fors'anche affascinato. Alcuni beduini apparvero a duecento passi di distanza agitando freneticamente le armi. —Fermate! Fermate! urlarono essi correndo. Abd-el-Kerim comprese il pericolo e si raddrizzò, ma la greca si era aggrappata disperatamente alle braccia di lui. —Lasciami, mostruosa creatura! balbettò egli fuori di sè. —Abd el-Kerim, ti amo, ti adoro, perdonami! mormorò con voce fioca
Elenka. Fa di me quello che vuoi ma rimani!
Egli la trascinò seco per dieci o dodici passi, poi con una violenta scossa l'atterrò e l'abbandonò mezza stordita fra le erbe, ripigliando la fantastica corsa sotto gli alberi. Il sangue gli oscurava la vista, le arterie gli battevano febbrilmente e parevagli che delle lingue di fuoco gli serpeggiassero per le vene e salissero su, su fino al cervello. Gli parve di essere diventato pazzo o di essere in preda ad uno spaventevole incubo che perdurava per quanto facesse per risvegliarsi. Corse per un'ora, smarrendosi fra i meandri della gigantesca foresta, fugando le iene e gli sciacalli che rompevano il silenzio della notte con orribili scrosci di risa e urla interminabili, poi si fermò, anelante, spossato, colla spuma alle labbra. Tutto ad un tratto udì un grido straziante, terribile, prolungato; era un grido d'angoscia, una invocazione suprema, un appello disperato. Nell'udirlo, i capelli si rizzarono sulla fronte e il sangue poco prima infiammato gli si gelò nelle vene. —Dio! Dio! qual voce! balbettò egli. Dove ho udito io questa voce?
Sono o non sono sveglio. Avanti! avanti!
Partì come una freccia coll'jatagan in mano, dirigendosi verso un macchione di piante di palme dal quale era partito il grido e sbucò in una piccola radura. Là legata ad un gigantesco tamarindo, semi-nuda, stava una donna e ritta dinanzi a lei una spaventevole jena che la stringeva fra i suoi artigli. Abd-el-Kerim gettò un urlo selvaggio, furioso, strozzato. —Fathma!… Fathma!… Ruinò come una valanga addosso alla jena che stava per sbranare la sventurata almea e con un terribile fendente le spaccò il cranio. —Fathma! mia adorata Fathma! esclamò l'arabo con istrazio. Tagliò rapidamente i legami e ricevette fra le braccia quel corpo inerte e semi-gelato: gli occhi dell'arabo s'inumidirono. —Rispondi, Fathma, rispondi, continuò egli, baciandola sulle gote.
Gran Dio! che è successo mai?… Come sei qui e in questo stato?…
Un debole sospiro uscì dalle labbra dell'almea e poco dopo aprì gli occhi e li fissò in quelli dell'amante. —Dove sono? chiese ella con un filo di voce. —Fra le mie braccia, al sicuro d'ogni offesa! esclamò Abd-el-Kerim che rideva e piangeva ad un tempo. Non aver paura, Fathma, sono qui io a difenderti, sono qui io a salvarti. L'almea lo mirò per alcuni istanti con occhi smarriti, poi gli gettò le nude braccia attorno al collo e se lo strinse al seno. —Tu, tu, mio amato Abd-el-Kerim! Allàh, fa che io non sogni! esclamò ella.

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Argomenti: cento passi,    duecento passi,    momento istesso,    corpo inerte,    spaventevole incubo

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