La favorita del Mahdi di Emilio Salgari pagina 3

Testo di pubblico dominio

—Lui! mormorò. L'almea si era avvicinata a loro tendendo le mani. Abd-el-Kerim trasse una manata di piastre e gliele porse. Il sorriso che ne ebbe lo sconvolse. Notis li guardò entrambi con sorpresa e sentì una ondata di sangue montargli alla testa nel sorprendere lo sguardo che si scambiarono e al sospetto che gli balenò in mente. —Come ti chiami bell'almea? chiese egli sardonicamente. —Fathma, rispose con nobile alterigia, la danzatrice. —Tu sei bella! esclamò Oòseir, alzandosi. Tanto bella che io voglio posare le mie labbra sulle tue. L'almea si trasse indietro. I suoi occhi s'infiammarono per l'ira e lo sdegno. —Non toccarmi, diss'ella con tono di minaccia. Vi sono pugnali capaci di forare il petto anche a un basci-bozuk. Volse bruscamente le spalle ed uscì dal caffè seguita dallo schiavo. Oòseir fe' atto di slanciarsi dietro a lei, ma due mani di ferro lo curvarono sull'angareb. —Non muoverti, gli disse Abd-el-Kerim gravemente. —Che ti salta in capo? chiese il basci-bozuk irritato. —Non muoverti, ti ripeto. —È forse la tua amante? Il greco si levò coi capelli irti, guardando fissamente l'arabo. —Tua amante! esclamò con voce strozzata. Ed Elenka? E mia sorella? —Non aver paura, Notis, disse Abd-el-Kerim, pacatamente. È la prima volta che io vedo quella donna e sono incapace di tradire la mia fidanzata. —Posso crederti? —Lo devi credere. —E allora, che importa a te se io voglio baciarla? chiese Oòseir. L'arabo si tacque, non sapendo certamente che cosa rispondere. —Hai forse paura che quell'almea mi pugnali. —Ne sarebbe capace, disse un sennarese, che fumava lì vicino. —La conosci tu? chiese Notis, con vivacità. Dove abita? —Non so chi sia. È giunta a Machmudiech due giorni fa e si è subito fatta temere. Un barcaiuolo che voleva abbracciarla fu da essa pugnalato e precipitato nel Bahr-el-Abiad. —È una jena quest'almea? —Forse peggio, rispose il sennarese. —E dove credi che sia andata ora? domandò Oòseir. —Ho veduto di fuori il suo cammello. Deve essere partita in direzione di Hossanieh, giacchè parlava di volersi recare al campo egiziano. Abd-el-Kerim che aveva prestato molta attenzione a quelle risposte, si levò in piedi come spinto da una molla. —È notte diss'egli, con voce leggermente alterata. —E che importa! esclamò Oòseir. —Abbiamo da percorrere molta via prima di giungere a Hossanieh. —Non avete dei mahari? —I mahari non impediscono alle fiere di uscire dai loro covi.
Andiamo, Notis, andiamo.
—Hai ragione, Abd-el-Kerim, rispose il greco alzandosi. Gettarono una manata di parà al wadgi, cinsero le scimitarre che avevano deposte in un angolo e strinsero la mano al basci-bozuk. —Addio, Oòseir, disse l'arabo. —Buona fortuna, amici miei, rispose il basci-bozuk. Che Allàh e il
Profeta tengano lontani i leoni e le iene.
Arabo e greco salutarono gli astanti e uscirono dal caffè. CAPITOLO II.—L'almea. Le tenebre allora erano calate. Al nord, sulla cima delle creste del monte Auli, appariva la luna la quale vedevasi spandere un incerto chiarore al di sopra delle oscure boscaglie del Gemanje, e in cielo salivano le stelle che riflettevansi vagamente sull'azzurra e placida corrente del Bahr-el-Abiad. Alcuni Sennaresi ed alcuni Arabi gironzavano ancora o sedevano in mezzo alle vie o a ridosso ai muricciuoli delle capanne, fumando nel scibouk o nei narghilèh. I due ufficiali scesero verso la riva presso la quale galeggiava una dahabiad a sei remi montata da alcuni barcaiuoli. Vi entrarono e si fecero traghettare alla sponda opposta, sbarcando ai piedi delle foreste, i cui rami giganteschi e fronzuti si curvavano graziosamente sulle acque. —Dove sono i cammelli? chiese Notis. —A cinquecento passi da qui, rispose Abd-el-Kerim, distrattamente. —Hai preso con te il mio schiavo Takir? —No, l'ho lasciato al campo onde preparasse la tua tenda. —Allora chi li guarda? Se tu gli hai lasciati soli non so se li troveremo ancora. Gli Arabi, amico mio, non sono fiori di galantuomini. —Non aver timori, Notis. Gli ho affidati ad un sudanese di mia conoscenza. S'arrampicarono sulla riva che veniva giù quasi a picco, tutta cosparsa di canneti e di enormi radici che s'intrecciavano confusamente le une colle altre e s'internarono sotto le oscure vôlte della foresta. Notis prese un sentieruzzo appena appena visibile, ed Abd-el-Kerim gli si mise dietro in silenzio e colla fronte aggrottata, come se un grave pensiero lo tormentasse. Quanto il greco procedeva con passo spedito, altrettanto l'arabo camminava lento e come svogliato. Anzi quest'ultimo di tratto in tratto si fermava, voltavasi indietro e mirava con occhio triste e cupo le rive del fiume e i dintorni, tendendo attentamente l'orecchio. Dopo una ventina di minuti, il greco scorse, semituffato fra le piante, una zeribak, specie di recinto formato da pali nei quali si radunano usualmente gli armenti per proteggerli contro gli assalti delle bestie feroci. Egli si arrestò, armando per precauzione il suo revolver. —Olà, Abd-el-Kerim, dove siamo noi? chiese egli. L'arabo che era lontano, non l'udì e per conseguenza non rispose. Notis si volse indietro e lo vide fermo in mezzo al sentiero che guardava fissamente le rive del Bahr-el-Abiad. —Che può avere Abd-el-Kerim? mormorò egli. Poco fa, quando gli parlai di mia sorella era diventato gaio e pareva felice. Come ora è diventato triste? Si direbbe che ha lasciato qualche cosa a Machmudiech… si direbbe che s'allontana a malincuore. Egli tornò indietro in punta di piedi e osservò minutamente il compagno. S'accorse che aveva gli occhi rivolti al villaggio e precisamente verso il caffè. Fece un gesto di sorpresa e fors'anco d'impazienza. —Oh!… esclamò egli. Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto. —Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo. —Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità. —Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari. Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente. —Che hai Abd-el-Kerim? L'arabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda. —Tu guardavi fisso fisso Machmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè? —Bah! per curiosità. —Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio? —Perchè, e l'arabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto. —Non so, mi pareva… —Non ho alcuna cosa che m'interessi a Machmudiech. Tiriamo innanzi,
Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a
Hossanieh.
Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano. Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e d'un tarabisc rosso sul capo. —I mahari? chiese brevemente l'ufficiale. —Sono pronti. Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata all'anello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. S'accontentano di un nulla, d'un pezzo di pane, d'un pugno d'orzo o di datteri o di un fastello d'erbe secche e spinose, e son felici quando l'arabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici d'una parola affettuosa, d'una semplice carezza. Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava

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Argomenti: due mani,    tanto bella,    cinquecento passi,    medesimo istante,    incerto chiarore

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