Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 55

Testo di pubblico dominio

qualche cosa? Piero rispose "scusa, no" risolutamente, pronto a rendere ragione della risposta. Ma Zaneto non la chiese. Voltò le spalle e trottò via curvo con un trotto conforme di "ben, ben, ben." Dopo pranzo, mentre Piero stava leggendo le lettere rimandategli da Brescia durante il suo soggiorno in Valsolda, capitò da lui la marchesa. Le prime parole che disse, con l'aria di annunciare una novità interessante e di metterci anche della fretta, furono: "El papà ga pianto tanto, dopo, poro omo." Piero capì subito, seccandosi di questi avvolgimenti eterni della vecchia signora, ch'ella non era venuta per apprendergli un tale avvenimento. Per verità ell'aveva indovinate le occulte cagioni dell'uscita di Zaneto sul pianerottolo della scala, temeva che di queste importunità fuori di luogo e di tempo il genero serbasse una impressione sinistra e voleva passarvi sopra la sua spugna ottimista, inzuppata di lagrime del marchese. Ma c'era di più. Pranzando, o piuttosto simulando di pranzare, perchè non toccò cibo, aveva escogitato uno de' suoi sapienti artifici per allontanare Piero, adesso che le sue disposizioni parevan buone, da villa Diedo. Detto delle lagrime, soggiunse, nel consueto stile, che Zaneto avrebbe voluto andare ma ch'era meglio di no. "Dove andare?" fece Piero, non senza malignità. "A Brescia?" "Eh no, no! A cossa xelo, a..." La signora nominò il luogo doloroso. Piero non parlò ed ella, dopo un lungo silenzio imbarazzato, fece: "Ecco." Piero la sentiva impigliata nelle spine di un esordio e non aveva voglia di aiutarla. Tuttavia, essendo entrato il domestico per accendere il gas, lo licenziò. Era quasi un invito a parlare. Infatti la suocera gli domandò se fosse contento. "Di che, mamma?" "Del servitor." Una risposta indifferente e un'altra pausa. Piero, tanto per fare qualche cosa, gettò nel cestino alcune buste lacerate. Allora la marchesa fece questa osservazione acuta: "Lettere. Ghe n'ò avudo una anca mi". Ella si mise a parlare confusamente di una lettera scrittale dalla villa dov'era venuta apprestando un quartiere per la sua figliuola, quando uscisse dal manicomio. I bambini del gastaldo avevano il morbillo. "Dunque mi digo che no convien." Questo primo piccolo garbuglio uscì alla luce dalla occulta matassa dei suoi pensieri. "Che cosa non conviene, mamma?" "De condurla là." Piero fece per domandare: chi? ma comprese in tempo che si trattava dell'Elisa, certo. Silenzio. "Che ghe sia malanni a cossa xela?" "Dove?" "A Valsolda." L'inatteso nome, l'inattesa proposta che balenava nei disordinati discorsi della marchesa, lo colpirono. "Non lo so" rispose. E si vide nel paese mistico, nella conscia casa, sulla terrazza dello zio Piero e di Ombretta, cinto di solitudine, di silenzio insieme a sua moglie stupefatta, come uscita da un sogno. Per un istante; il sogno, adesso, era la guarigione di Elisa. La marchesa mise finalmente fuori la segreta sua idea: non potrebbe il genero recarsi in Valsolda, disporvi la casa per un soggiorno anche invernale? Ella, che non aveva mai veduto la Valsolda, si pose a discorrere come se l'avesse familiare, mettendo assieme brandelli di cose udite e rimastele malconce nella memoria, confondendo la casa di Oria con la casa di Cressogno, il lago di Lugano con quello di Como, l'Italia con la Svizzera, ma tirando via impavida a scovar tutte le perfezioni di quel paese per la congiuntura presente, se le speranze si avverassero; a trovarvi ogni possibile accordo con i gusti della sua figliuola, che in fatto ne aveva riportato una impressione molto sfavorevole. Chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il genero di allestire una camera in Valsolda anche per lei, ma non verso il lago; perchè a Venezia — ella disse così — il tremolìo dell'acqua le faceva venire il capogiro. Il genero, durante un discorso tanto fantastico, era venuto pensando altra cosa: e invece di rispondere alla povera vecchia signora, la interrogò: "Senta, mamma. Per tutto questo c'è tempo a pensarvi. Adesso Le vorrei domandare di una cosa molto antica. Nei primi anni del Suo matrimonio, avrebbe Lei mai udito parlare in casa Scremin di una grossa lite che i vecchi Maironi avrebbero vinta contro l'Ospitale Maggiore di Milano?" "Io?" fece la signora, trasognata. "Sì, Lei. Ci pensi bene." Ci pensò e rispose: "Non saprei." Appena ebbe risposto così, ricordò di avere udito il suocero Scremin parlare delle ricchezze di casa Maironi come di roba male acquistata, male sottratta a un Istituto pio. "Aspetta" diss'ella. "Forse." Le balenò il sospetto di essere stata imprudente e soggiunse: "No, non so". Piero si tenne sicuro ch'ella sapesse. "Ho trovato qui una lettera dell'avvocato Marchiaro" diss'egli. "Questo sì, lo sa?" Questo non lo sapeva davvero. "L'avvocato Marchiaro" riprese Maironi "mi scrive che ha negoziato con Carlo Dessalle un mutuo per papà, grossissimo; che per il momento le trattative sono interrotte e che vorrebbe riprenderle offrendo la mia firma. Ora io non potrei dare oggi la mia firma neppure se in massima vi fossi disposto, perchè di questi giorni ho scoperto certe cose gravi che riguardano la mia sostanza e che m'impediscono, almeno per ora, di disporne. Lo dica Lei a papà." Alla povera donna cadde il cuore. Un mutuo con i Dessalle! Ah, Zaneto, Zaneto! Non trovò niente a dire e si alzò, angosciata, scura. Oltre al maggior dolore le cuoceva di non poter cavare a difesa del marito i soliti arzigogoli d'interpretazioni benigne, di trovarsi, davanti a Piero e per opera sua, così disfatta. Se ne andò silenziosa, seguita rispettosamente da lui fino alla soglia del suo appartamento, dove lo congedò con queste asciutte parole senza voltarsi: "Mi no ghe digo gnente, sètu." Piero ritornò alle sue lettere. Gli era venuta prima fra le mani una carta da visita di don Giuseppe Flores. Ecco adesso anche una lettera sua. La guardò a lungo, invaso come quel giorno in Duomo da redivive immagini e ombre della sua confessione al vecchio prete, là nello stanzino della solitaria villa, dal senso molesto del giudizio che quell'uomo doveva portare di lui. V'era tuttavia una differenza. In Duomo l'incontro con don Giuseppe gli era stato sgradevole; adesso la vista dei suoi caratteri lo turbava di un turbamento che non era senza mistura di un desiderio e di una particolare commozione, perchè sempre don Giuseppe gli aveva ricondotto le immagini dei suoi genitori e ora gliele riconduceva tanto più note e vive e parlanti all'anima sua parole di amore imperioso. Aperse la lettera e lesse: Caro signore e amico, ero venuto da Lei per la silenziosa preghiera d'una poveretta che il Signore ha creato augusta e, vorrei dire, sacra, con doni mirabili di dolore e di sommessione al dolore. Essa non osò espressamente affidare a questo disutile, cadente prete un messaggio per Lei, prezioso e grave di sapienza non umana. Altre mani erano da questo, io lo tolsi all'insaputa della persona che dico; e adesso lodo Chi non permise che io lo portassi con la mia voce malviva, con la mia parola rotta. Penso perciò di non ritornare a Lei, d'inviarle dove mi han detto ch'Ella ora è il messaggio prezioso senza pronunciarlo, chiuso in un ideale vaso suggellato ch'Ella facilmente aprirà se mi ascolta bene. Pensi anzi tutto le confessioni dolorose che in un'ora di travagliata coscienza Ella venne a portarmi nella mia solitudine con tale generoso abbandono, con tale generoso impeto che in quel momento io mi sentii umiliato davanti a Dio di accettare da Lei parole riverenti. Pensi quindi la creatura desolata che, non lontana da Lei, soffre nel suo cuore materno più di quanto il mondo veda e creda o possa mai credere. La pensi ora se mai qualche volta l'avesse, non del tutto involontariamente, dimenticata. Pensi quanto Ella è pur troppo sola nel suo dolore immenso nè dubiti che labbra crudeli non Le sussurrino continuamente crudeli parole, non Le parlino di amare offese alla sua diletta infelice. Pensi finalmente che la silenziosa

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Argomenti: lungo silenzio,    cuore materno,    discorso tanto,    dolore immenso,    trotto conforme

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