Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 49

Testo di pubblico dominio

Sarebbero stati dimenticati sulla terrazza? Mentre si applaudiva e si rideva, mentre la dama si schermiva dai complimenti degli amici e Carlino attendeva di poter ripigliare la sua stiracchiata similitudine dell'adorna porta con l'adorno esordio di una favola romantica, Jeanne uscì lesta e incontrò in giardino donna Laura, sola. Il marchese (Dio, che senatore meschinetto!) era partito lasciando molte scuse. E dunque? Dunque Scremin si era impegnato a far lavorare suo genero per la elezione di Brescia. Siccome Jeanne, udito questo, fece un piccolo "hm!" dubitativo, donna Laura si arrischiò a dire, sorridendo: "Basta che tu voglia!". Era forse più facile, al buio, di osare così. "Te l'ha detto Scremin, questo?" fece Jeanne. "No, lo penso io." "Bene, non è vero." E che non fosse vero, Jeanne, affermandolo, era convinta. "Dei suoi imbarazzi non ti avrà mica parlato?" soggiunse. "No, gliene ho parlato io." "Tu?" Già, donna Laura era famosa per le sue prudenze di educatrice e per le sue audacie di maleducata. "Quando si vuole un fine straordinario" diss'ella "bisogna gittare i riguardi ordinari." Aveva fatto cenno al marchese di altre difficoltà che il suo nome incontrava, difficoltà di carattere molto positivo, forse per effetto di voci sicuramente false ma ch'era necessario di ridurre subito al silenzio. Il marchese si era turbato alquanto, aveva risposto con un tortuoso viluppo di frasi mal connesse, volendo far intendere che per effetto di certe trattative i Dessalle conoscevano la solidità della sua posizione economica e avrebbero potuto attestarne. "È vero?" chiese donna Laura. Jeanne credeva infatti che suo fratello fosse stato richiesto di un grosso mutuo, che la cauzione offerta fosse non larga ma sufficiente, che l'affare avesse naufragato per il saggio dell'interesse. "Ecco" disse donna Laura "egli vorrebbe che io inducessi il ministro a chiedere informazioni, circa questo punto, al Prefetto o che al Prefetto ne parlaste voi. Del resto" soggiunse "capisci bene che io non ci tengo. Io tengo alla elezione di Brescia." Jeanne non rispose. L'altra sentì il gelo di quel silenzio e il pregio del momento fugace. "Scusa" diss'ella "parliamo un poco. Non voglio entrare nelle tue faccende, ma insomma credo che dovresti aiutarmi." "Ancora?" "Sì, ancora. Questa volta si fa conoscere nel collegio lavorando per un altro; un'altra volta lavorerà per sè. E lo aiuteremo." Questo parlare senza riguardi e il tono di protezione irritarono Jeanne. "Scusa, sai" diss'ella "t'inganni molto e poi è un discorso inutile. Andiamo, io debbo rientrare." Donna Laura, delusa, pensò: che si sieno guastati? E si propose di saperne qualcosa la sera stessa. Intanto il successo di Carlino andava crescendo. Egli aveva imbastita la più assurda delle fiabe e intorno alla bocca dell'uomo acido il muscolo orbiculare, il buccinatorio e il risorio facevano insieme, a ragione, una tregenda furiosa. Ma le proiezioni levavano il pubblico a rumore. Il soggetto della fiaba era questo. Una bella, gentile e nobile giovinetta della città, presente nella sala e realmente fidanzata a un signore straniero, figurava già sposa in un castello superbo sul Reno presso allo scoglio della Lorelei, felice ma non senza qualche ombra di mestizia per il ricordo della patria lontana. La Lorelei, impietosita da quei sospiretti, le recava in dono e le piantava in giardino la svelta vecchia torre all'ombra della quale era nata, la Torre di città. Seguiva la desolazione dei cittadini per la scomparsa della loro Torre. Qui c'era un anacronismo. Maironi usciva sul bianco quadrato con la sciarpa da sindaco, nell'atto di andar cercando, con una lanterna in mano, la Torre. Jeanne si crucciò di quest'apparizione, che fece ridere assai, e del silenzio serbatone con lei da Carlino che pure le aveva prima raccontata la fiaba. Si vide l'arresto di un noto signore altissimo sospettato di aver inghiottito la Torre, lo svenire di un altro signore erudito che aveva pubblicato una Biografia documentata della Torre di città, il suicidio di alcuni patrizi amici di Carlino che saltavano capofitti nel profondo buco aperto al posto del patrio monumento. Seguiva un concilio di Fate protettrici della città. Mai, nel racconto che le proiezioni commentavano, il conferenziere, fedele al titolo della sua cicalata, non aveva pronunziato nomi. I nomi li proclamava il pubblico davanti alle figure dei Numi. Anche la Lorelei era una bella signora di Rolandseck, accasata nella città della Torre. La galanteria e insieme la prudenza di Carlino furono particolarmente ammirate nella descrizione, detta e figurata, di questo concilio dove il potere magico era conferito alle più belle e illustri dame della città, le quali, descritte una per una con frasi ampollose ma enigmatiche, comparvero sul quadrato pure in una forma enigmatica, col viso in tutto o in parte velato, e ne balenarono via rapidamente nè vi ricomparvero malgrado i richiami del pubblico. Erano dodici. Delle trentasei signore presenti trentacinque sperarono essere del numero, fidando anche le vecchie nei titoli, nei palazzi, nella cortesia cavalleresca dell'oratore e nel velo completo. La sola carissima signora Colomba Raselli era umilmente persuasa di non potersi consolare con tali speranze del perduto "fiocheto". Le fate congiuravano nel palazzo della janua clara e con incantesimi riportavano la Torre dal Reno a casa, conducevano la giovine sposa e lo sposo a dimorarvi presso, facevan prigione la Lorelei e graziosamente l'assumevano a loro compagna e sorella. Il racconto e lo spettacolo finivano con un frenetico ballo pubblico intorno alla Torre rimessa in posto. Cancaneggiavano con la folla il sindaco, il signore altissimo, il signore erudito e anche i patrizi suicidi. Un inno alla gentile città ospitale, soggiorno eletto di Grazie e Genii, fu la chiusa gradita della conferenza. L'orchestrina intuonò un'aria popolare locale allargandone il tempo a segno di renderla solenne, non riconoscibile a prima vista; e sul quadrato uscì la immagine di Carlino stesso, inclinata verso il pubblico in atto di riverenza, con le braccia conserte e una piccola Torre stretta sul cuore. Tutte le lampade brillarono a un punto fra lo scrosciar degli applausi. La sala era già sgombra per il ballo e poche persone vi passeggiavano, mentre gli altri invitati si pigiavano ancora, fumando sigarette, sorbendo gelati, nelle stanze che fronteggiano la valle del Silenzio, dipinte pure dal Tiepolo con l'estro più fantasioso e denominate da Carlino la Cina dei mostri, la Georgica, la Galante, l'Olimpo, la Darwiniana, l'Anacreontea. Il successo della fiaba era stato così grande che soltanto le signorine parevano impazienti di ballare. Si faceva un gran chiasso intorno a Carlino e intorno alle più sicure delle presunte fate. Ah Lorelei Rapir vorrei! mormorò a Gonnelli il cupido Bessanesi, molto ammirando lo scollato della signora tedesca. "Ah, Bessanesi, Bessanesi, che dice mai?" fece alle sue spalle, battendolo col ventaglio, donna Bice. "Sì, lor e Lei — Rapir vorrei!" rispose il pittore, pronto. Donna Laura prese a braccetto una delle fate, una piccola fata irrequieta e nervosa, sua compagna di classe a Poggio Imperiale, e col pretesto di vedere i Tiepolo si fece portare nell'Anacreontea, il mirabile salottino dei putti, l'ultimo delle stanze verso levante, dove non c'era nessuno. La interrogò sugli amori di Maironi e di Jeanne. "Ma non se ne parla più!" rispose la fata spensieratella, tutta scintillante per essersi fatta vedere a braccetto della gran dama. "Me ne domandi perchè non lo vedi qui? È a Brescia per affari. È una cosa accettata, un matrimonio. Si trova che lei potrebbe qualche volta dissimulare un po' meglio, fare come fa lui ch'è irreprensibile in questo, ma poi in fondo si pensa: un marito senza moglie... una moglie senza marito... non per loro colpa... giovani... scusa, siamo proprio sinceri, cosa tanto difficile!... è una fortuna che si siano legati fra

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Argomenti: gentile città,    tortuoso viluppo,    castello superbo,    noto signore,    signore altissimo

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