Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 30

Testo di pubblico dominio

prendere un malanno del secolo decimosesto! Come disinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare il sublimato? "Ciò!" gridò il bizzarro Fusarin. "E quela barbassa de quel capussin de Calcante, e quela giaca onta de quel maledeto barbiero inzenocià col so caìn sporco in man per tor su el sangue de Ifigenia, e tuti quei tabaroni longhi de quei prinsipi greçi co quei musi da ciche e da cicheti, credistu, anima mia, che no i ghe n'abia dei batteri? E mi che me piasarave, vardè vualtri, crepar da la peste del mille e sinquessento! Saria belo, ciò! Saria novo!" Seguì un torneo di sentenze pazze sulla morte e sulla vita. Berardini scherzava e rideva con la più bronzea delle facce e Jeanne durava fatica a ricordarsi ch'era in dovere di trattarlo un po' male, tanto poco si curava di lui e tante simili audacie di sciocchi e d'intelligenti aveva conosciute. Egli sostenne che non aveva la coscienza di esistere, ma soltanto di parere esistente e che questo era il balsamo di tutti i mali, di tutte le paure e gli diminuiva niente la facoltà di godere, anzi gliel'accresceva, toglieva di mezzo o almeno riduceva a una semplice apparenza quella diversità fra la vita e la morte che spaventa il comune degli uomini. Fanelli prese le sue parti contro i due artisti, soli a difendere l'assoluto con una mitraglia punto metafisica d'improperi. Jeanne ascoltava in silenzio, attendendo al tè, ma gli occhi, le sopracciglia, la fronte, persino talvolta le spalle, dicevano consensi e dissensi vivaci, a vicenda; più vivaci i dissensi da Chieco e Fusarin, come se la infastidisse che proprio quei due fossero nel torto. Fusarin se ne avvide il primo e disse sdegnosamente: "Eh, za se sa, ciò! Go torto mi." "Ma certo" esclamò Jeanne accesa in volto. "Pare impossibile! È una cosa tanto evidente che ogni nostra certezza è una certezza solamente per noi, è una certezza relativa, e che il pretendere di possedere qualsiasi certezza assoluta è una illusione." Fanelli e Berardini batterono le mani. "Forse ci sono" disse Carlino "e forse non ci sono. Questa è la mia gioia, di non saperlo. Ma bada, Jeanne, tu mi hai l'aria di riscaldarti non tanto contro Chieco e Fusarin, quanto contro un'opposizione segreta di mia sorella, non so se m'intendi." Ella crollò le spalle: "Sciocchezze!". E sorrise a Chieco che domandava una illusione di tè, mezza illusione di latte, tre illusioni di zucchero e sei o sette illusioni di gauffrettes perchè forse aveva cenato e forse non aveva cenato alle dieci e mezzo. Fusarin, più innamorato che logico, inghiottì rassegnatamente col tè la certezza che non vi ha certezza, e si accontentò di brontolare a Jeanne: "Se no La ghe xe Ela, no ghe son gnanca mi, ciò, intendemose!" Partirono all'alba, con grande sollievo di Jeanne che si pose a letto mortalmente stanca ma beata di pensare lui, lui solo, in pace. Si domandò: sogna egli di me adesso? E rise di se stessa, del romanticismo convenzionale che si assorbe nei libri e ci passa nel sangue. No, egli sognava forse il Municipio o qualche altro sogno stupido. A lei sarebbe piaciuto di sognare l'ignoto lago di Valsolda nel chiaro di luna, una gita in barchetta con lui. Chiuse gli occhi, cercò disporsi al sonno e a questo sogno: vedersi nella mente il lago e le montagne di cui non aveva un'idea. Non seppe immaginare che la barchetta, le carezze, la voce amorosa di lui; ma così non le riesciva di dormire. Allora si mise a pensare alla fama che qualche vendicativo, forse uno dei tanti libertini respinti, forse suo marito stesso, doveva averle fatta perchè gli uomini che non la conoscevano fossero tanto audaci con lei. E pensò pure al discorso di Berardini, al marchese Zaneto, all'uomo politico influente che le sarebbe piaciuto di conoscere per farlo amico di Maironi, perchè gli combattesse le tendenze socialiste che a lei dispiacevano, che le parevano pericolose, non convenienti alla sua natura delicata e mistica, frutto di fantasia. Non un brivido, non una lieve inquietudine le diedero segno che in quell'ora stessa il suo amante vegliava immobile e cupo, fissando uno spettro. CAPITOLO QUARTO
IL CAFFÈ DEL COMMENDATORE I La marchesa Nene, vestita di nero, curva, severa nel viso rugoso e cereo, entrò, seguìta da Maironi, con la sua grossa Filotea in mano, nella cappella del Duomo dove aveva desiderato che si dicesse una messa in ringraziamento della nuova luce di speranza che spuntava sul triste innominato Asilo. La cappella era vuota, i ceri ancora spenti, l'altare coperto. Ma quando un chierichetto venne a scoprir l'altare e ad accendere i ceri, le poche figure nere sparse per i banchi della unica grande navata mossero verso la cappella. Due fra le amiche umili della marchesa, piccoline, vestite di scuro, due vecchi pretini femmine, le si accostarono: "Se consolemo che gavemo sentìo", e fatto a Piero un lieve, contegnoso cenno del capo, entrarono nel banco di faccia. C'era pure, per caso, l'uomo acido, uso ascoltar la messa ogni mattina. C'era la moglie del giornalista Soldini, una bella signora dai capelli bianchi e dagli occhi vivaci, che salutò la marchesa ma con discrezione, senza accostarlesi. C'erano finalmente due vecchie accattone. Ultimo entrò nella cappella con passo cascante e con viso modesto un omino grigio dal zimarrone vasto, l'omino potente sui destini di Zaneto Scremin e di molti altri, il Commendatore. Miope, non si avvide a prima giunta della marchesa nè di Maironi, nè della Soldini, nè dell'uomo acido, tutte persone a lui note. Si sarebbe umilmente inginocchiato sul gradino di un confessionale se la Soldini per un ossequio spontaneo e le accattone per un ossequio meditato non si fossero affrettate a fargli posto. La Soldini gli sussurrò che a messa finita gli avrebbe chiesto un minuto di udienza fuori della chiesa, ciò che fece rannuvolare la fronte e inasprire la guardatura del prossimo uomo acido, il quale meditava pure di afferrare il Commendatore all'uscita della chiesa, per certi suoi fini profani. Il Commendatore s'inchinò alla signora con un mite sorriso di assenso. Soltanto a messa inoltrata gli venne il sospetto che l'uomo ritto in piedi presso la vecchia signora dal viso rugoso e cereo fosse Piero Maironi. Ne fu così durevolmente distratto che poi se ne giudicò reo di colpa veniale attenuata dalla bontà del movente; perchè l'ex-sindaco gl'ispirava molta simpatia, gli sarebbe piaciuto che s'avviasse per un cammino migliore, gli sorrideva di aiutare a porvelo e ora compiacevasi molto di vederlo in quel luogo e in quella compagnia, pensava qualche pretesto per parlargli dopo la messa, qualche modo di tenersi in comunicazione con lui. Piero aveva cercato per tempissimo della suocera, volendo sapere che avesse veramente detto il medico dello Stabilimento. Arduo problema con una informatrice impacciata e tarda nella lingua come la marchesa; tanto più impacciata e tarda quanto più combattuta dal dovere di dire la verità e dal desiderio di non dirla intera. Ell'avrebbe voluto che Piero si accontentasse delle parole scritte dall'inferma, che ne godesse, che non curasse di sapere altro; e a tutte le sue domande rispondeva annaspando, annaspando, per metter poi fuori sempre da capo, sempre con rinnovato desiderio e sollievo, quel pezzetto di carta. Esperto di lei, delle sue vie mentali coperte e delle coperture caotiche, Piero comprese che il barlume di coscienza balenato nella parola dolorosa doveva essere svanito subito. Poi la suocera gli aveva detto con il suo apparente candore: "Andemo che xe ora", come se non sapesse delle nuove abitudini di Piero, il quale da Praglia in poi aveva rotto, per un sentimento di fiera lealtà, con tutte le pratiche. E la marchesa lo sapeva. Colto all'improvviso, Piero non seppe trovare lì per lì un pretesto di scusarsi, non osò ferire la vecchia signora che in cuor suo, malgrado tutto, venerava, e l'accompagnò in Duomo. Stanco della lunga veglia, delle angoscie patite nella immaginazione, aveva

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Argomenti: semplice apparenza,    qualsiasi certezza,    grande sollievo,    romanticismo convenzionale,    lieve inquietudine

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