Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 6

Testo di pubblico dominio

che si era offerta, degli occhi vitrei, parlanti e brucianti. Cacciò la visione voluttuosa, la richiamò, la respinse ancora con più molle difesa. Ebbe, con un gran batter del cuore, l'idea che un velo denso e molle si stendesse lentamente sopra di lui, chiudesse il cielo. Ebbe il senso di una liberazione, di un'ebbrezza saliente dalla terra calda, di un abbandono, di un'amorosa estasi in cui tutta la più occulta parte dell'esser suo, una magnifica potenza intatta di passione, di gioia e di follia gli sarebbe scoppiata dal cuore, dal pensiero, dai sensi. Diverse forme gli lampeggiavano nella visione interna: l'ardita cameriera bionda, la bella signora Dessalle, incontrata un giorno in ferrovia, dai grandi occhi bruni che tanto lo avevan guardato, e altre ancora, cui egli si foggiava con violenza in una forma sola, in un essere solo, creandole di sè con un pensato magico bacio fra l'orecchio e il collo, creando nella cameriera come nella dama, con irresistibile impero, la donna voluta da lui, animando della propria sua fiamma la donna da lui uscita e da riaspirare in sè. Balzò a sedere sul letto. Nel silenzio della notte, nel lume tremante della candela le stesse cose intorno a lui parevano guardarlo attonite. Scese, aperse la finestra, bevve l'aria fredda, scura e muta. Ore dalla torre di città: una, due. Silenzio. Ore dalla prossima chiesa: una, due. Paiono voci tristi e gravi che si scambiano un lugubre saluto claustrale: memento. Altre voci solenni, vicine, lontane, nell'interno stesso della casa, ripetono: una, due: memento. Maironi si fece macchinalmente il segno della croce, mormorò macchinalmente: "Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo, amen". Sentì la preghiera cader senza eco nel mistero vuoto e sordo, giunse le mani, chiamò a sè, quasi per un cieco istinto, due persone non conosciute mai, immaginate in diverse forme infinite, talvolta dimenticate, talvolta desiderate intensamente, strette a lui dal più tenero affetto, ma impedite di rispondere al suo richiamo, dormenti l'ultimo sonno nel povero camposanto di Oria in Valsolda: "Madre mia! padre mio!". Si ricordò di avere una lettera urgente a scrivere, volle farlo subito. Si trattava di rispondere a monsignor De Antoni, canonico del Duomo, ch'era venuto il giorno prima da lui con una missione segreta di S.E. il Vescovo. La maggioranza clericale del Consiglio, uscita dalle recenti elezioni, avrebbe corso pericolo di vita se non metteva alla luce il giovane sindaco da lei concepito. Questo frutto restìo del suo seno era Piero Maironi. Le pratiche fatte presso di lui prima dell'elezione non avevano approdato; Maironi non voleva saperne, l'aveva dichiarato a monsignor De Antoni. Il mansueto monsignor De Antoni a forza di spiccicare durante le sue proteste dei vischiosi "ben, ben, sissignor, sissignor", a forza di sorrisetti, di contorcimenti, di blandi "ho capito" e di vispi "facciamo così" aveva ottenuto una proroga alla risposta definitiva. Ora Maironi era impaziente di sbarazzarsi del tutto. Se si era lasciato portare dagli amici per disciplina di parte e anche per un desiderio indefinito di moto e di lavoro, non voleva però, nuovo agli affari, esser posto a capo dell'amministrazione comunale in un momento difficile, in cui la sua inesperienza poteva costar cara al partito e più al pubblico. Gli ripugnava pure di lasciar del tutto, sui due piedi, l'abito di vita bigia che portava da quattro anni. Qualche altra cosa gli ripugnava forse nell'offerta degli amici, cui neppure voleva confessare a se stesso. Ed era ritornato a casa, quella sera, col proposito di scrivere subito, per finirla. Nel pensare, con la penna in mano, le frasi di cui vestire i suoi argomenti per modo che persuadessero il Vescovo al quale la lettera sarebbe stata indubbiamente mostrata da monsignor De Antoni, nel cercare gli epiteti delle difficoltà, dei pericoli, delle cure, delle angustie che lo avrebbero atteso sullo scanno sindacale, un pensiero nuovo gli si affacciò alla mente. E se accettasse? Se le difficoltà, i pericoli, le cure, le angustie potessero cacciare i fantasmi amorosi, e voluttuosi che lo assediavano? Se questo dubbio glielo ispirassero suo padre e sua madre allora invocati? Se l'offerta degli amici e le premure del Vescovo celassero un coperto aiuto di Dio? Pensò, pensò fino a che il capo gli s'intorbidò di stanchezza, di sonno; e rimise la decisione all'indomani mattina. Egli dormiva ancora quando gli capitò in camera, guardingo, con la faccia piena di rincrescimento e la bocca piena di scuse, il marchese Zaneto. Aveva una tal quale necessità di parlare al genero, non gli era venuto in mente, conoscendo le sue abitudini, che potesse dormire ancora, gli parlerebbe adesso, se però il genero non ne fosse troppo incomodato. Dopo il successo elettorale di Maironi il suocero lo trattava con una officiosità così impacciata e fredda che Piero n'era seccato e aspettava sempre di vederne comparire la cagione occulta. Udito quell'esordio, pensò: "Ci siamo" e rispose: "Figurati!". "Bene, ecco, due cose" cominciò Zaneto lentamente, guardando in terra e spremendosi a più riprese, dalle guance con la mano sinistra, le parole che parvero colar vischiose dalla bocca: "due cose". Aperta così la vena del discorso, alzò gli occhi, non però in viso al suo interlocutore, e parlò un poco più fluido: "Sono venute da me alcune persone del tuo partito. Dico del tuo partito perchè forse le mie idee... sì, dico, non so... insomma per intenderci meglio. Persone ottime e anche, dirò, autorevoli. Sì sì, autorevoli. Desideravano che io ti persuadessi ad accettare l'ufficio di sindaco. Io ho risposto che parlerei per riferire, semplicemente. Dicono..." Qui la voce di Zaneto cambiò, prese l'accento caricato di chi ripetendo parole altrui, vuol fare intender chiaro che parla così un altro e non egli. "Dicono che sei indicato per la posizione sociale, per la votazione stessa, che nessun altro sindaco è possibile fuori di te, che se non accetti è un danno gravissimo della città e così via." Zaneto tacque un momento, poi guardò finalmente suo genero e lasciò cascare floscia floscia questa chiusa: "Ecco." "E tu" domandò Piero, "cosa ne dici?" Zaneto si fece un po' scuro, prese un'aria di Sibilla restìa e dopo aver taciuto alquanto rispose con insolita risolutezza: "Dispensami!" "Eh no!" rispose il giovane ironicamente, volendo pur aver ragione di tanta diplomazia. "Perchè dispensarti?" Zaneto fece un gran gesto silenzioso, menò il braccio destro in aria, sorrise come per dire "cosa serve?" e ripetè: "Dispensami!" "Ci vuol tanto" esclamò Piero "a dire che sei contrario?" "No" rispose Zaneto, "io non sono nè contrario nè favorevole. Ti dico subito che di questo stesso argomento mi ha parlato un'altra persona per indurmi a sconsigliarti dall'accettare, ed io l'ho pregata, come adesso te, a dispensarmi." "E chi era questa persona?" Zaneto si scosse, si contorse con un brontolìo che pareva nascergli nel ventricolo. Suo genero indovinò subito. "Il Prefetto" diss'egli. "Non c'è dubbio." "Piano, piano" fece Zaneto sconcertato. "Io non ho detto niente e non dico niente. Del resto ieri son venuti molti a parlarmi del tuo sindacato. Il primo è venuto alle otto della mattina, un individuo che non conosco. — Chi è Lei? — Sono uno che suona il pelittone in fa bemolle. — Bravo. E allora?... Se dicesse una parola a Suo genero che sarà il nostro sindaco... se mi facesse prendere nella banda municipale... — A mezzogiorno ne capita un altro; anche lui per avere la tua protezione, perchè tu gli faccia impiegare un figliuolo alla Posta e collocar la madre al Ricovero comunale. Un terzo è venuto ieri a sera, un diurnista del Municipio. Dice che fra pochi giorni sarai eletto sindaco, che vorrebbe presentarsi a te per farti i suoi ossequi e anche per certe sue istanze particolari, ma che si trova in condizioni miserabili di vestito e gli occorrerebbe una giacca decente, se

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Argomenti: braccio destro,    maggioranza clericale,    velo denso,    pensiero nuovo,    magico bacio

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