Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 56

Testo di pubblico dominio

preghiera mi viene da Lei, e altro ad aprire il vaso chiuso, a leggere il messaggio ascoso non Le bisogna. Prossimo al sepolcro, io sento con tremore e speranza venirmi incontro anime care e sante che partirono prima di me. Stamani all'altare pregai la Divina Misericordia che mi concedesse di partire alla mia volta con un altro messaggio, con un messaggio dolcissimo per due di quelle anime ascese in Dio, per due anime che nel loro cammino terreno santificarono a Lei, caro amico, una simile casa fra due cipressi, in riva ad acque solitarie, accanto a una povera chiesina che neppure io so dimenticare. Suo D. Giuseppe Flores Era una commovente lettera e aveva in sè dolcezza di conforto che lo scrittore non aveva sospettata. Non era Piero già disposto ad allontanarsi da Jeanne? Non era egli anche avviato a compiere un grande atto di giustizia, il sacrificio di quella ricchezza che suo padre e sua madre non avevano toccata, e non era questo pure un atto di figlio degno, non era un messaggio di gioia da portare alle due anime ascose in Dio? Vero, a suo padre ciò non sarebbe bastato. Forse neppure a sua madre. E neanche poteva bastare a quel venerando don Giuseppe. Ma! Ah s'egli non avesse conosciuto altri cattolici! Se non fosse vissuto, da bambino in poi, nel contatto di tanta meschinità cattolica, intellettuale e morale! Come non pensare che suo padre, don Giuseppe Flores e qualche altro cuore alto, qualche altro intelletto forte, se la Chiesa cattolica ne possedeva, non si potevano propriamente dire cattolici, che la loro era un'altra religione, una religione superiore al comune gretto cattolicismo, pauroso della ragione, schiavo in tutto dell'autorità dispotica deificata, tanto aspro a chi ne sta fuori, tanto impastoiato negl'interessi terreni, antiquato nello spirito come nel linguaggio! Egli aveva una volta discorso di religione, a villa Diedo, con un certo scrittore francese, di grande ingegno, che si professava cattolico e concepiva il dogma cattolico in modo così ardito e nuovo che Piero gli aveva detto: "Ma Lei non è cattolico!". Colui aveva risposto: "Come il vocabolo è comunemente inteso, no, non lo sono". Don Giuseppe Flores era prudentissimo, ma si poteva giurare che non intendeva il cattolicismo alla maniera dei Quaiotto nè dei Zàupa, nè della teologia ufficiale, nè dei temporalisti vaticani. E allora perchè gli uomini come lui, come quel francese, non parlano alto? Perchè non richiamano i loro fratelli al vero? Perchè non tentano una riforma della loro Chiesa, perchè non si levano, se occorre, contro i despoti, almeno contro quelli anonimi? Piero lo aveva detto a quel francese e il francese aveva risposto: "Per far questo bisogna essere santi". E perchè non lo sono, santi? Perchè non lo diventano? È tanto difficile spogliarsi degli averi e dei piaceri? Egli ebbe un momento di orgoglio pensando che questo appunto stava per fare benchè non fosse santo nè legato, di fatto, ad alcuna Chiesa, ad alcun Credo ufficiale. III Quella sera stessa, molto più tardi, scrisse al suo avvocato per chiedergli un colloquio. Era una notte afosa, in casa si soffocava. Piero sentiva che se si fosse coricato non avrebbe potuto, un po' per il caldo, un po' per l'agitazione, pigliare sonno. Risolse di recar egli stesso il biglietto alla Posta. Ma prima tolse dalla valigia e rilesse per la centesima volta la carta d'affari trovata nel portafogli, che gli era stata causa di scrivere all'avvocato. Era una lettera di sua madre incominciata a scrivere il 17 gennaio 1862, nove giorni prima che morisse, e non finita, nella quale affidava ad una cara amica l'incarico d'informare suo figlio, quand'ella venisse a morte durante l'infanzia di lui, che a detta del povero padre suo la sostanza Maironi aveva origine da una lite mal vinta contro l'Ospitale Maggiore di Milano. Le ultime parole della lettera interrotta erano queste: "Io spero...". Certo ella aveva sperato in un cuor fiero e forte del figlio suo. E il figlio suo si proponeva di conferire, l'indomani, con l'avvocato X per incaricarlo di ricerche nell'Archivio dell'Ospitale Maggiore circa questa lite con la famiglia Maironi e, in quanto fosse possibile, di un platonico giudizio di appello. Delle proprie intenzioni nel caso che il giudizio riescisse favorevole all'Ospitale, nè scrisse nè intendeva parlarne all'avvocato. Si recò alla Posta dopo le undici. Il cielo era minaccioso, le strade vuote risuonavano al suo passo nello scarso lume dei radi fanali accesi per la intera notte. Dalla Posta si avviò lentamente verso la Piazza Maggiore per un indistinto desiderio di pensare, tratto quel dado, al futuro nelle ombre della notte, in cospetto delle nuvole, fra i silenzi solenni di case dormenti, dove si sentiva più solo che nella propria camera. Aveva il senso di un imminente ingrandimento delle proprie sorti, d'una imminente, profonda trasformazione di sè, d'un prossimo compiersi dell'antico presentimento, d'un prossimo apparire della via prefissagli dall'Inconoscibile. Il cuore gli batteva, dilatato e forte, battiti di aspettazione avida incontro a questa volontaria uscita dalla ricchezza nella povertà, incontro alla dura, necessaria lotta per la vita, non disgiunta dalla lotta per l'idea. Un sottile piacere d'orgoglio gli tendeva tutte le corde del volere e dell'ardire. Si fermò serrando i pugni; avrebbe giurato che gli occhi gli lucessero. Ebbe allora il conscio senso di una essenziale deficienza di Jeanne come amante poichè, amando piuttosto con lo spirito che con i sensi, non aveva però potuto unificarsi con lui nel più alto, nel più profondo dell'anima sua. Le vampe dell'orgoglio, della sovreccitazione intellettuale gli assorbivano il calore della vita inferiore. Egli considerava con disprezzo superbo il pericolo di cadere, lasciando Jeanne, nelle sensualità basse, si credeva immune per sempre da quelle febbri. Lo colpì bene il ricordo della fallace sicurezza cui gli aveva dato nelle ore mistiche lo schifo delle colpe sensuali; ma perchè non avrebbe fine una volta la vicenda degli ardori e chi poteva dire che non fosse già finita? Cacciò quel ricordo ed entrò nella deserta Piazza Maggiore in faccia alla magnificenza spettrale delle grandi occhiute logge nere che un glorioso maestro antico cinse all'opera decrepita e cieca di un confratello antichissimo, come qualche umanista potè cingere di splendore idee medioevali. Pensò ch'era forse suo destino di abbandonare fra poco e per sempre la città onde il genio tutelare risiede in quelle meravigliose logge e nella sottile, altissima torre che vi sorge accanto e serve loro, secondo diceva Carlino Dessalle, di punto ammirativo. Venticinque anni di ricordi gli s'illuminarono nella mente, come ai moribondi il corso intero della lor vita. Rivide nel bagliore di un lampo infiniti luoghi della città congiunti a memorie indelebili, dal cortile di casa Scremin dove fanciulletto aveva giocato col figlio dell'autentico Giacomo, al caffè dov'era condotto, le domeniche di quel tempo antico, a prendere il gelato, ai passeggi suburbani che don Paolo prediligeva, alle chiese che frequentavano insieme, al Seminario dove, per desiderio dello stesso don Paolo, aveva più volte, con vere angoscie, subìto esami di latino e d'italiano, alle stanze dei giorni più felici, dei più dolorosi e dei più aridi, agli uffici del Municipio, alla sala delle adunanze consiliari, a villa Diedo. Villa Diedo! E Vena di Fonte Alta? E la promessa data? Farebbe una visita di poche ore, il più tardi possibile fra quindici o venti giorni, verso la metà di luglio. Sarebbe stato più opportuno astenersene poichè il legame si doveva allentare; ma la promessa? Una semplice visita, un saluto! Sì, una semplice visita, un saluto; però l'idea di questa visita, di questo saluto, che poteva essere l'ultimo, gli tolse la voglia di fantasticare più oltre. IV Pensate un cornuto arcavolo mostruoso degli elefanti, invadente a muso basso l'ampia sua via, pôrto l'occipite

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Argomenti: povero padre,    piazza maggiore,    cammino terreno,    sovreccitazione intellettuale,    glorioso maestro antico

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