Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 39

Testo di pubblico dominio

antichi e gli sarebbe spiaciuto di aver a sostenere un assalto condotto da quell'uomo tanto rispettabile e buono, al quale non avrebbe potuto rispondere così vigoroso come ad altri. E dal cedere abborriva. Ne abborriva non solamente per l'attrazione che l'idea socialista esercitava sopra di lui, ma più ancora perchè la compagnia dei liberali gli pareva sonnolenta e il programma impotente a generare l'azione intensa di cui sentiva più e più il bisogno nella inquietudine divorante dell'anima tormentata dalla più profonda scontentezza di sè, dalla impotenza dell'amore a infonderle la pace. Il Commendatore, licenziato Çeóla non bruscamente ma tuttavia senza troppe cerimonie, sdegnando i sommessi lamenti dei propri nervi per il caffè loro negato malgrado tanti fedeli servigi, fece al nuovo venuto un'accoglienza festosissima. Andò a raccoglierlo nell'anticamera, e prima di farselo sedere vicino, gli mostrò dei libri pervenutigli di recente; fra gli altri, un trattato di trigonometria. "Vede, vede?" diss'egli. "Tu non credevi ch'io geometra fossi." Ci aveva pure Le socialisme intègral. "Questo lo conoscerà? Sogni, sogni sentimentali!" Maironi lo conosceva infatti. Già nell'anteriore suo stato d'animo, preso dalla curiosità del socialismo, aveva letto un compendio francese del Capitale di Marx, Progress and Povertà di George e il libro di Benoît Malon. "Saranno sogni" diss'egli vivacemente "ma Lei creda pure che ci è stato qualche sogno rivelatore del futuro!" "Si accomodi, si accomodi" fece il Commendatore, ritraendo in fretta la mano indagatrice dal tocco di quel sangue che bolliva. Ed entrò subito nel discorso delle due cose per le quali aveva pregato Piero di venire. A sussidio di certi suoi studi storici, intanto, gli occorrevano alcune copie di documenti dell'archivio municipale di Brescia. Si rivolgeva, per averle, alla cortesia di Maironi. Supponeva che Maironi facesse gite frequenti a Brescia; non possedeva egli grandi poderi nel Bresciano? Pigiò molto su questi grandi poderi e poi toccò dei fastidi della vita cittadina, della sorte beata di chi può vivere sulle proprie terre occupandosi di esse, studiando, magari anche sognando un poco! E qui mise a posto una delle sue risatine discrete. Queste parole, cercate con intenzione più profonda, volendo dire e non dire, gli servirono di passaggio all'argomento delicato dove poi, con abbondanti cautele, mise il piede. L'argomento era la candidatura senatoria di Zaneto. Il Commendatore pigliò le mosse appunto da Brescia, dalle condizioni politiche di quella città e della provincia, dalla importanza che il Ministero attribuiva, ragionevolmente, a certa elezione politica che avrebbe avuto luogo colà in epoca non lontana. Egli calò con lente e larghe ruote del discorso, come un alato diffidente, a toccare, a sfiorare appena certo messaggio portato da un membro del Parlamento circa supposte condizioni alla nomina di Zaneto, soffiate da un ministro nell'orecchio dell'onorevole, tra le quali vi era l'appoggio di Maironi al candidato ministeriale in quel collegio del Bresciano. Maironi, mal soffrendo gli avvolgimenti di parole del prudente Commendatore, sentendo che sola cagione del suo parlare involuto era la paura di toccare Jeanne, di alludere a Jeanne cui l'onorevole Berardini aveva tenuto quel discorso, risentendosi di questi riguardi quasi offensivi per Jeanne e per lui, non attese altro e protestò che questo non era possibile, che egli non prendeva impegno, assolutamente, nè di sostenere nè di combattere alcuno. "Abbia pazienza" fece il Commendatore, desideroso, in quel momento, non tanto d'indurre Piero a una risoluzione qualsiasi quanto di appagare se stesso conducendo i propri studiati periodi a fine. E li condusse a fine spiegando lungamente e minutamente, non senza rifarsi talvolta da capo per amore di chiarezza, che forse in tutto questo vi era, quanto all'esito, un eccesso di ottimismo, che neppure quel ministro, forse, era in grado di promettere, ma che una probabilità, una probabilità — il Commendatore insistette sul vocabolo — c'era senza dubbio e che, senza dubbio, l'elezione di Brescia poteva pesar molto sulla bilancia. "Ecco" diss'egli, soddisfatto, sorridente, liberato dal suo gomitolo di ragionamenti, da ogni scrupolo di silenzi male serbati. "E spero di non aver meritato l'epigramma di un mio carissimo amico briccone, molto briccone: longus esse laborat, obscurus fit." L'altro rinnovò anche più vibrante le sue proteste, le quali adesso vennero accolte in pace con un "faccia Lei, faccia Lei, cosa Le posso dire?". Tanto in pace che Maironi n'ebbe l'impressione di certa spiacevole indifferenza e gli venne una gran voglia di scuoter l'uomo con qualche audace parola. "Non è per la questione di Brescia" diss'egli "è perchè ho fatto altre idee." "Bene! bene! bene!" fece il Commendatore col viso di chi pensasse "male! male! male!" come certo confessore veneto andava dicendo — ben! ben! — ad ogni nuovo peccato che gli snocciolava il penitente. "Senta" diss'egli alquanto solenne e come uscendo con autorità da una breve meditazione: "non s'impegni troppo presto con queste idee che dice. Vita doctrix! Frequenti un poco di più la scuola della vita, ma proprio da scolaro che sta sul banco ad ascoltare e guardare. E poi... e poi... e poi!..." Il Commendatore scosse la mano destra in aria come benedicendo il soffitto, per significare che poi gli avrebbe dato anche licenza di salire sulla cattedra. Il naso di Rosina. "Signor, ghe xe el signor Prefeto." Maironi si alzò, promise di occuparsi dei documenti desiderati e partì contento di aver detto abbastanza chiaro, posto quel buon intenditore, l'animo suo. S'incontrò nell'anticamera con il zoppicante Bassanelli, consigliere delegato reggente la Prefettura dopo il trasloco del Prefetto. Si scambiarono un saluto freddo. "Che ghe porta el cafè a quel zoto?" pensò Rosina, riparato il guasto di quell'altro libero bevitore. Il padrone suonò per ordinare che non si lasciasse più passar nessuno e Rosina ebbe soltanto il coraggio di origliar un poco all'uscio. Udì Bassanelli dir forte: "Commendatore mio, andemo zoti!" e il padrone ridere. Poi non le riuscì di afferrare altro e se ne andò brontolando contro il Governo, che nominava Prefetti di quel genere, senza un po' di sussiego, di dignità. La faccia, il pelo e la gamba sinistra, la gamba di Palestro, del cavaliere Bassanelli avevano cambiato molto da quella sera del 1859 passata trincando nella gaia compagnia dei Sette Sapienti all'Isola Bella, dove uno dei Sette, Franco Maironi, era venuto ad abbracciar sua moglie prima di arruolarsi per la guerra. Nello spirito egli era ancora il bonario e rude originale dell'Isola Bella. La molta cultura, la qualità dell'ufficio, la dimestichezza con persone affabili e corrette gli avevano alquanto levigato il linguaggio senza cancellarne tutte le pittoresche audacie. Scettico fino all'osso, saturo fino alle midolla di senso del reale e del pratico, mangiaradicali quanto pochi e mangiapreti nell'intimo del suo stomaco quanto nessuno, corteggiatore e disprezzatore delle donne, il padovano copriva i propri sentimenti sin là dove le convenienze dell'ufficio volevano e non più oltre. Aveva moltissimo rispetto e non altrettanta simpatia per il Commendatore, uomo troppo religioso per lui, troppo legato con ecclesiastici, troppo cauto nella parola, troppo schivo del giudicar franco, del chiamar le cose con il loro nome. Non gli piaceva interamente di averlo nella sede della Prefettura, benchè lo conoscesse mitissimo e il navigare fra i deputati gli riuscisse più difficile, più pericoloso assai che l'accordarsi con lui, al quale il Ministero rinviava sempre la Prefettura nelle faccende più delicate. Ora la faccenda delicata era lo scioglimento del Consiglio comunale, invocato dai liberali e possibile a giustificarsi con la composizione del Consiglio stesso dove la maggioranza clericale prevaleva per pochi voti e pareva

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Argomenti: uomo troppo,    maggioranza clericale,    programma impotente,    compendio francese,    sogno rivelatore

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