Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 52

Testo di pubblico dominio

governante dimorarono a Oria, stentando la vita egli a Torino e loro qui. Son lettere piene di vita e di freschezza, specialmente quelle di mia madre, che mi hanno fatto spesso sorridere per certi tocchi di vivace comicità, per certi schizzi di figure umane tanto vive ch'ella vi butta giù alla brava, senza pretese, mentre mio padre adopera un linguaggio più letterario. La figura patriarcale dello zio Piero, la figura soave della piccola Ombretta, come la mia sorellina Maria è chiamata in queste lettere, n'escono così piene di bontà e di grazia! Ah! e anche così semplici! Sentivo, leggendo, come una nostalgia di quel mondo povero e puro e un disgusto del nostro; non solamente di quello tanto moderno dove vivi tu ma di quell'altro pure dove fui allevato io, del mondo Scremin con la sua vecchia parrucca e la sua vecchia cipria, con le sue grettezze segrete e le sue livree pubbliche. Ma poi un'altra rivelazione mi sorprese e mi commosse; la rivelazione di un profondo dissidio religioso tra mio padre e mia madre. Mi pare che mia madre avesse presso a poco le idee alle quali sono venuto io adesso. Invece mio padre era un fervido credente. Ma quanta vita nella sua fede, quanta purezza, quanto calore, quanto umile, tenero amore per la sua compagna incredula! Niente la superbia di chi si pretende solo possessore della verità; fede, semplice fede, fede di uno che crede come una pianta piega verso il sole, perchè non potrebbe fare altrimenti. Quindi trovai lettere dello zio e della nonna Rigey, meno interessanti. Poi una busta con una ciocca di capelli di mia sorella. Quale commozione dopo aver letto di lei quello che avevo letto, povera piccina! Ma più ancora pensando a mio padre e a mia madre che a lei. Poi un'altra busta con la scritta di pugno della mia povera mamma: Preziose reliquie. "L'apro; un poco di cenere in un foglietto bianco. Preziose reliquie! Cosa potevano essere? Pensai e mi venne in mente questo, non so dire con quale tremito di riverenza; le lettere di amore di mio padre. Ah che cosa, Jeanne, che parole, che cenere casta e santa! Che unione è stata quella di mio padre e di mia madre, quanto era dolce questo mio pensiero e quanto era amaro! Mi son sentito come soffocare, prender via dal mondo dei vivi, portar là dentro fra quelle ombre di un mondo passato. Dovetti aprir la finestra, star lì un pezzo con le mani alle imposte, respirar l'aria notturna, sentendo la realtà delle cose presenti senza pensare a niente. Non vi erano più che due carte da guardare. Fui incerto se leggerle o no, mi pareva di essere esausto, di non poter più accostarmi a quelle reliquie con attenzione degna. Vinse un sentimento di ossequio. La prima delle due carte era di affari, molto importante, tale da poter influire profondamente sulla mia vita. Ora non è il momento di parlarne. L'altra era un foglietto aperto, con questa intestazione di pugno della povera mamma: "Parole scritte da lui per mia preghiera, un giorno felice. "Jeanne, sono brevi, ma io non le posso trascrivere. Forse lo potrò un giorno; nello stato presente dell'animo mio, tenebroso e tempestoso, non ne son degno. Non voglio dare la mia mano alla parola religiosa di mio padre e sentire che non posso darle impero nella mia mente. Il "giorno felice" era il 15 ottobre 1859. Le anime di mio padre e di mia madre si erano ricongiunte nella stessa fede, in un atto sincero di culto, nel giorno di S. Teresa, onomastico della povera nonna Rigey. Mio padre si sentiva meglio, speranze fallaci rinascevano in lui e intorno a lui; le sue parole sono soavissime e vi ho parte anch'io che stavo per nascere. "Quando il foglio mi cadde di mano e io mi volsi per un istintivo moto alla finestra aperta, a guardar le cose stesse che avevano guardato mio padre e mia madre, ecco ancora il fievole suono delle campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Oh Jeanne, io vi ho sentita la voce di mio padre, tanto triste, tanto severa! Comprendi? "Partirò sabato col primo battello, per Lecco e Rovato. Vorrei pure informarmi di tante cose, prima, di tante persone del tempo passato. Addio! Come penso io a te e all'avvenire? Lo so io ancora? E sarebbe stato degno, sarebbe stato possibile che io tacessi con te tutte queste cose e la mia dolorosa tempesta interna?" Le Fate, che in quel momento, felici della loro serata trionfale, ne parlavano, facendosi spogliare, alle cameriere dormigliose e loro lodavano, per pungerne l'amor proprio, l'acconciatura di Jeanne, non sospettavan certo che lei, la maggior trionfatrice, chiusa la persona in una veste da camera, sciolti i capelli magnifici, piegata la fronte sopra una lettera, piangesse, come la notte, un silenzioso pianto. CAPITOLO SESTO
VENA DI FONTE ALTA I Il treno diretto diurno di Milano giunse a Rovato, sabato, con venti minuti di ritardo, perchè a Treviglio s'era dovuto aggiungere una carrozza. Jeanne aveva telegrafato a Maironi da Milano, venerdì mattina, che sarebbe partita sabato con quel treno e che sperava incontrarlo a Rovato dove il treno ch'egli avrebbe preso a Lecco arriva in coincidenza col diretto per Venezia. Nessuna risposta era giunta. Per verità il telegramma non richiedeva risposta; tuttavia le angoscie di Jeanne si erano strette ora in una sola, nel dubbio di non trovare Maironi a Rovato. Ella era venuta alla Stazione centrale assai per tempo e aveva preso posto in un coupé vuoto; ma prima della partenza vi eran salite altre cinque persone, un cruccio! E il treno era zeppo; impossibile allogarsi meglio. I suoi compagni di viaggio erano, per giunta, italiani, loquaci e curiosi. Due signore noiose, molto eleganti, studiavano la sua toilette, e un signore noiosissimo, elegantissimo, studiava lei. Ell'aveva preso un angolo di sinistra, e appena il treno fischiò appressandosi alla stazione di Rovato, si alzò in piedi, si affacciò, pallida, alla portiera. Ah, c'era, e la cercava con gli occhi. La vide, ed ella gli accennò con un sorriso di venire; gli disse che c'era posto. Nel sorriso, nel saluto ell'apparve padrona di sè più assai che non lo fosse lui. Ma poi, dietro al dorso del facchino che gli collocava la valigetta nella rete si trasfigurò in una larva di angoscia; gli sussurrò presso al volto: "Pietà di me!". L'angolo in faccia era occupato. Piero le sedette accanto, scambiando alcune frasi indifferenti con il lei. Ella lo fece meravigliare dicendo che aveva il biglietto per Venezia. Per Venezia? Sì, certo. Jeanne sorrise, aperse un giornale, sussurrò dietro il foglio "per riguardo a Lei", e gli occhi le si velarono di lagrime. Si morse le labbra, si vinse subito, sorrise ancora, parlò della serata di villa Diedo riuscita così bene, della graziosa fiaba di suo fratello. Piero non sapeva ascoltare, neppure le domandò il soggetto della fiaba. Ed ella continuò a discorrere. Carlino intendeva ritornare da Milano martedì. Giovedì, o al più tardi sabato, sarebbe ripartito con lei. Per dove? Per Vena di Fonte Alta, un bel nome di una bella montagna. Carlino s'era fatto analizzare una goccia di sangue, aveva voluto che il dottore pungesse un dito anche a sua sorella, che analizzasse ancora. E il dottore aveva trovato poveri di globuli rossi l'uno e l'altro sangue, voleva mandare i fratelli a Recoaro. Jeanne non aveva voluto saperne di Recoaro, nè di Saint-Moritz nè di altre acque; e così era stato deciso di andare a Vena per una semplice cura climatica. Piero non sapeva dove questa Vena fosse, quale via si dovesse tenere per andarvi. Ne parlarono quietamente. Cinque ore dalla città, due di ferrovia e tre di vettura, mille metri sul mare, boschi di abeti, boschi di faggi, solitudine, quiete. I Dessalle avevano impegnate quattro stanze dell'unico, piccolo albergo. Altre sei erano libere. Jeanne disse queste ultime parole quasi timidamente. Piero non rispose, e la conversazione cadde. Guardando l'uno e l'altra per lo stesso finestrino il verde fuggente, luccicante di sole, sentendo che là, in una linea dei campi parallela

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Argomenti: cinque ore,    due signore,    tenero amore,    figura patriarcale,    figura soave

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