Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 30

Testo di pubblico dominio

un'insolita tenerezza, mentre l'aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani che aiutavano una Trao, e si sentivano divenir leggere leggere fra quei capelli fini! Gli occhi di lui si accendevano sulle trine che le velavano gli omeri candidi e delicati, sulle maniche brevi e rigonfie che le mettevano quasi delle ali alle spalle. Gli piaceva la peluria color d'oro che le fioriva agli ultimi nodi delle vertebre, le cicatrici lasciatele dal vaccinatore inesperto sulle braccia esili e bianche, quelle mani piccole, che avevano lavorato come le sue, e tremavano sotto i suoi occhi, quella nuca china che impallidiva e arrossiva, tutti quei segni umili di privazioni che l'avvicinavano a lui. - Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamo d'accordo come dico io!... Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti!... Tutte quelle bestie che ridono adesso e si divertono alle nostre spalle!... Vedrai! vedrai!... Ha buon stomaco, mastro-don Gesualdo!... da tenersi in serbo per anni ed anni tutto quello che vuole... e buone gambe pure... per arrivare dove vuole... Tu sei buona e bella!... roba fine!... roba fine sei!... Essa rannicchiò il capo nelle spalle, simile a una colomba trepidante che stia per esser ghermita. - Ora ti voglio bene davvero, sai!... Ho paura di toccarti colle mani... Ho le mani grosse perché ho tanto lavorato... non mi vergogno a dirlo... Ho lavorato per arrivare a questo punto... Chi me l'avrebbe detto?... Non mi vergogno, no! Tu sei bella e buona... Voglio farti come una regina... Tutti sotto i tuoi piedi!... questi piedini piccoli! Hai voluto venirci tu stessa... con questi piedini piccoli... nella mia casa... La padrona!... la signora bella mia!... Guarda, mi fai dire delle sciocchezze!... Ma essa aveva l'orecchio altrove. Pareva guardasse nello specchio, lontano, lontano. - A che pensi? ancora al Ciolla?... Vo a finire in prigione, la prima notte di matrimonio!... - No! - interruppe lei balbettando, con un filo di voce. - No... sentite... devo dirvi una cosa... Sembrava che non avesse più una goccia di sangue nelle vene, tanto era pallida e sbattuta. Mosse le labbra tremanti due o tre volte. - Parla, - rispose lui. - Tutto quello che desideri... Voglio che sii contenta tu pure!... Com'era di luglio, e faceva un gran caldo, si tolse anche il vestito, aspettando. Ella si tirò indietro bruscamente, quasi avesse ricevuto un urto in pieno petto; e s'irrigidì, tutta bianca, cogli occhi cerchiati di nero. - Parla, parla!... Dimmelo qui all'orecchio... qui che nessuno ci sente!... Rideva tutto contento colla risata grossolana, nell'impeto caldo che cominciava a fargli girare il capo, balbettando e anfanando, in maniche di camicia, stringendosi sul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo delicato che sentiva rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le sollevava il capo dolcemente si sentì cascar le braccia. Ella si asciugò gli occhi febbrili, col viso tuttora contratto dolorosamente. - Ah!... che gusto!... Aveva ragione la zia Cirmena!... Bel divertimento!... Dopo tanti stenti, tanti bocconi amari!... tante spese fatte!... Si dovrebbe essere così contenti qui... due che si volessero bene!... Nossignore! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno delle nozze, santo e santissimo!... Dimmi almeno che hai!... - Non badate a me... Sono troppo agitata... - Ah! quel Ciolla!... ancora!... Com'è vero Dio, gli tiro addosso un vaso di fiori adesso!... Voglio far la festa anche a lui, la prima notte di matrimonio! Parte seconda I - Tre onze e quindici!... Uno!... due!... - Quattr'onze! - replicò don Gesualdo impassibile. Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappello, e fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé, gridando: - Quattro e quindici!... E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipio che presiedevano all'asta delle terre comunali, si parlarono all'orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribatté con voce calma: - Cinque onze! Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il naso; calcò il cappello in testa, e poi infilò l'uscio, sbraitando: - Ah!... quand'è così!... giacch'è un puntiglio!... una personalità!... Buon giorno a chi resta! I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all'orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo. - Nossignore, - rispose ad alta voce costui. - Non ho di queste sciocchezze... Fo i miei interessi, e nulla più. Nel pubblico che assisteva all'asta corse un mormorio. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll'aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro: - Cinque onze e sei!... Dico io!... - Per l'amor di Dio, - gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. - Signor barone, non facciamo pazzie!... - Cinque onze e sei! - replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante. - Cinque e quindici. Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l'aria presidenziale. - Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scherzare!... Avrete danari... non dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l'altro portava i sassi sulle spalle... sia detto senza offendervi... Onestamente... "Guardami quel che sono, e non quello che fui" dice il proverbio... Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno... fanno... - E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre. - So quello che fanno, - rispose ridendo mastro-don Gesualdo. - Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse! Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un'occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all'uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio. - Va bene!... va benissimo!... Ma intanto la legge dice... Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso. - Sicuro!... Chi garantisce per voi?... La legge dice... - Mi garantisco da me, - rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora. A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì. - Signori miei!... - strillò il barone Zacco rientrando infuriato. - Signori miei!... guardate un po'!... a che siam giunti!... - Cinque e quindici! - replicò don Gesualdo tirando un'altra presa. - Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l'asta, signor don Filippo. Il baronello Rubiera scattò su come una molla, con tutto il sangue al viso. Non l'avrebbero tenuto neppure le catene. - A sei onze! - balbettò fuori di sé. - Fo l'offerta di sei onze a salma. - Portatelo fuori! Portatelo via! - strillò don Filippo alzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasi, pallido come la sua camicia adesso. - Sissignore! a

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Argomenti: sei bella,    quindici tarì,    corpo delicato,    vaccinatore inesperto,    lontano don

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