Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 75

Testo di pubblico dominio

trovavano lì, della casa non lasciavano pietra sopra pietra; pigliavano ogni cosa; neanche gli occhi per piangere gli lasciavano. Finché lo indussero a scappare dalla parte del vicoletto. Mèndola corse a bussare all'uscio dello zio Limòli. Al baccano, il marchese, oramai sordo come una talpa, s'era buttato un ferraiuolo sulle spalle, e stava a vedere dietro l'invetriata del balcone, in camicia, collo scaldino in mano e i piedi nudi nelle ciabatte, quando gli capitò quella nespola fra capo e collo. Ci volle del bello e del buono a fargli capire ciò che volevano da lui a quell'ora, mastro-don Gesualdo più morto che vivo, gli altri che gli urlavano nell'orecchio, uno dopo l'altro: - Vogliono fargli la festa... a vostro nipote don Gesualdo... Bisogna nasconderlo... Egli ammiccava, colle palpebre floscie e cascanti, accennando di sì, mentre abbozzava un sorriso malizioso. - Ah?... la festa?... a don Gesualdo?... È giusto! È venuto il vostro tempo, caro mio... Siete il campione della mercanzia!... Ma finalmente, al sentire che invece volevano accopparlo, mutò registro, fingendo d'essere inquieto, colla vocetta fessa: - Che?... Lui pure? Cosa vogliono dunque?... Dove andiamo di questo passo? Mèndola gli spiegò che don Gesualdo era il pretesto per dare addosso ai più denarosi; ma lì non sarebbero venuti a cercarne dei denari. Il vecchio accennava di no anche lui, guardando intorno, con quel sorrisetto agro sulla bocca sdentata. Erano due stanzacce invecchiate con lui, nelle quali ogni sua abitudine aveva lasciato l'impronta: la macchia d'unto dietro la seggiola su cui appisolavasi dopo pranzo, i mattoni smossi in quel breve tratto fra l'uscio e la finestra, la parete scalcinata accanto al letto dove soleva accendere il lume. E in quel sudiciume il marchese ci stava come un principe, sputando in faccia a tutti quanti le sue miserie. - Scusate, signori miei, se vi ricevo in questa topaia... Non è pel vostro merito, don Gesualdo.. La bella parentela che avete presa, eh?... Sul vecchio canapè addossato al muro, puntellandolo cogli stessi mattoni rotti, improvvisarono alla meglio un letto per don Gesualdo che non stava più in piedi, mentre il marchese continuava a brontolare: - Guardate cosa ci capita! Ne ho viste tante! Ma questa qui non me l'aspettavo... Pure gli offrì di dividere con lui la scodella di latte in cui aveva messo a inzuppare delle croste di pane. - Son tornato a balia, vedete. Non ho altro da offrirvi a cena. La carne non è più pei miei denti, né per la mia borsa... Voi sarete avvezzo a ben altro, amico mio... Che volete farci? Il mondo gira per tutti, caro don Gesualdo!... - Ah! - rispose lui. - Non è questo, no, signor marchese. È che lo stomaco non mi dice. L'ho pieno di veleno! Un cane arrabbiato ci ho. - Bene, - dissero gli altri. - Ringraziate Iddio. Qui nessuno vi tocca. Fu un colpo tremendo per mastro-don Gesualdo. L'agitazione, la bile, il malanno che ci aveva in corpo... La notte passò come Dio volle. Ma il giorno dopo, all'avemaria, tornò Mèndola intabarrato, col cappello sugli occhi, guardandosi intorno prima d'infilar l'uscio. - Un'altra adesso! - esclamò entrando. - Vi hanno fatto la spia, don Gesualdo! E vogliono stanarvi anche di qua per costringervi a mantenere ciò che ha promesso il canonico... Ciolla in persona... l'ho visto laggiù a far sentinella... Il marchese, ch'era tornato arzillo e gaio fra tutto quel parapiglia, aguzzando l'udito, ficcandosi in mezzo per acchiappar qualche parola, corse al balcone. - Sicuro! Eccolo lì col camiciotto, come un bambino... Vuol dire che si torna indietro tutti!... Don Gesualdo s'era alzato sbuffando, gridando che era meglio finirla, che correva giù a dargliela lui, la promessa, al Ciolla! E giacché lo cercavano, era lì, pronto a riceverli!... - Certo, certo, - ripeteva il marchese. - Se vi cercano vuol dire che hanno bisogno di voi. Di me non vengono a cercare sicuro! Vogliono farvi gridare viva e morte insieme a loro? E voi andateci! Viva voi che avete da farli gridare! - No! So io quello che vogliono! - ribatté don Gesualdo imbestialito. - Scusate, non si tratta soltanto di voi adesso, - osservò Mèndola. - È che dietro di voi ci siamo tutto il paese!... Sopraggiunse il canonico, grattandosi il capo, impensierito della piega che pigliava la faccenda. Durava la baldoria. Una bella cosa per certa gente! Quei bricconi s'erano legate al dito le parole di pace ch'egli si era lasciato sfuggire in quel frangente, e stavano in piazza tutto il giorno ad aspettare la manna dal cielo: - M'avete messo in un bell'imbroglio, voi, don Gesualdo! A quell'uscita del canonico successe un altro battibecco fra loro due: - Io, eh?... Io!... Son io che ho promesso mari e monti? - Per chetarli, in nome di Dio! Parole che si dicono, si sa! Avrei voluto vedervi, dinanzi a quelle facce scomunicate! Il marchese si divertiva: - Senti senti! Guarda guarda! - Insomma, - conchiuse Mèndola, - queste son chiacchiere, e bisogna pigliar tempo. Intanto voi levatevi di mezzo, causa causarum! In fondo a una cisterna, in un buco, dove diavolo volete, ma non è la maniera di compromettere tanti padri di famiglia, per causa vostra! - In casa Trao! - suggerì il canonico. - Vostro cognato vi accoglierà a braccia aperte. Nessuno sa che c'è ancora lui al mondo, e non verranno a cercarvi sin lì. - Il marchese approvò anch'esso: - Benissimo. È una bella pensata! Cane e gatto chiusi insieme... - Don Gesualdo s'ostinava ad opporsi. - Allora, - esclamò il canonico, - io me ne lavo le mani come Pilato. Anzi vado a chiamarvi Ciolla e tutti quanti, se volete!... Don Gesualdo era ridotto in uno stato che di lui ne facevano quel che volevano. A due ore di notte, per certe stradicciuole fuori mano, andarono a svegliare Grazia che aveva la chiave del portone, e al buio, tentoni, arrivarono sino all'uscio di don Ferdinando. - Chi è? - si udì belare di dentro una voce asmatica. - Grazia, chi è? - Siamo noi, don Gesualdo, vostro cognato... Nessuno rispose. Poi si udì frugare nel buio. E a un tratto don Ferdinando si chiuse dentro col paletto, e si mise ad ammonticchiare sedie e tavolini dietro l'uscio, continuando a strillare spaventato: - Grazia! Grazia! - Corpo del diavolo! - esclamò Mèndola. - Qui si fa peggio! Quella bestia farà correre tutto il paese! Il canonico rideva sotto il naso, scuotendo il capo. Grazia intanto aveva acceso un mozzicone di candela, e li guardava in faccia ad uno ad uno, allibbita, battendo le palpebre. - Che volete fare, signori miei? - azzardò infine timidamente. Don Gesualdo, che non si reggeva più in piedi, pallido e disfatto, proruppe in tono disperato: - Io voglio tornarmene a casa mia!... a qualunque costo... Sono risoluto!... - Nossignore! - interruppe il canonico. - Qui siete in casa vostra. C'è la quota di vostra moglie. Ah, caspita! Avete avuto pazienza sino adesso... Ora basta!... Lì, nella camera di donna Bianca. Il letto è ancora tal quale. Mèndola s'era messo di buon umore, mentre preparavano la stanza. Frugava da per tutto. Andava a cacciare il naso nell'andito oscuro, dietro l'usciolino. Trovava delle barzellette, ricordando le vecchie storie. Quanti casi! Quante vicende! - Chi ve lo avrebbe detto, eh, don Gesualdo? - Lo stesso canonico Lupi si lasciò sfuggire un sorrisetto. - Intanto che siete qui, potete fare le vostre meditazioni sulla vita e sulla morte, per passare il tempo. Che commedia, questo mondaccio. Vanitas vanitatum! Don Gesualdo gli rivolse un'occhiata nera, ma non rispose. Ci aveva ancora dello stomaco per chiudervi dentro i suoi guai e le sue disgrazie, senza farne parte agli amici, per divertirli. Si buttò a giacere sul letto, e rimase solo al buio coi suoi malanni, soffocando i lamenti, mandando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva salire alla gola. D'una cosa sola non si dava pace, che avrebbe potuto crepare lì dove era, senza che sua figlia ne sapesse nulla. Allora, nella febbre, gli passavano dinanzi agli occhi

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Argomenti: due ore,    caro don,    colpo tremendo,    vecchio canapè

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