Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 55

Testo di pubblico dominio

insegnava dei lavori nuovi, delle cornicette intessute di fili di paglia, delle arance e dei canarini di lana. Le contava delle storielle, le portava da leggere le poesie che scriveva suo nipote Corrado, di nascosto, nel panierino della calza. - Son fresche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. È ritroso, quel benedetto figliuolo. Così timido! uno che ha bisogno d'aiuto, col talento che ha, peccato! - E le suggeriva anche dei rimedi per la salute delicata, lo sciroppo marziale, delle teste di chiodi in una bottiglia d'acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucina, col vestito rimboccato alla cintola, a far cuocere un buon brodo di ossa per sua nipote Bianca, a preparare qualche intingolo per Isabella che non mangiava nulla. - Lasciate fare a me. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tanti pulcini colla luna. - Un braccio di mare quella zia Cirmena. Una donna che se le si faceva del bene, non ci si perdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a venire anche lui la sera per tenere allegra la brigata. - Tu che sai fare tante cose, coi tuoi libri, colle tue chiacchiere, porterai un po' di svago. Santo Dio! se stai sempre rintanato coi tuoi libri, come vuoi far conoscere i tuoi meriti? - Poi, quando lui non era presente, cantava anche più chiaro: - Alla sua età!... Non è più un bambino... Bisogna che s'aiuti... Non può vivere sempre alle spalle dei parenti!... - E superbo come Lucifero per giunta, ricalcitrando e inalberandosi se alcuno cercava di aiutarlo, di fargli fare buona figura, se la zia s'ingegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suo nipote Corrado e gli rubava gli scartafacci, e andava a sciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Motta, compitando, accalorandosi come un sensale che fa valere la merce, mentre don Gesualdo andava appisolandosi a poco a poco, e diceva di sì col capo, sbadigliando, e Bianca guardava Isabella la quale teneva i grand'occhi sbarrati nell'ombra, assorta, e le si mutava a ogni momento l'espressione del viso delicato, quasi delle ondate di sangue la illuminassero tratto tratto. Donna Sarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nulla, badava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tanto, chinavasi verso il lume, oppure se la pigliava col nipote che scriveva così sottile. - Ma che talento, eh! Come amministratore... che so io... per soprintendere ai lavori di campagna... dirigere una fattoria, quel ragazzo varrebbe tant'oro. Il cuore mi dice che se voi, don Gesualdo, trovaste di collocarlo in alcuno dei vostri negozi, fareste un affare d'oro!... E... ora che non ci sente... per poco salario anche! Il giovane ha gli occhi chiusi, come si dice... ancora senza malizia... e si contenterebbe di poco! Fareste anche un'opera di carità, fareste! Don Gesualdo non diceva né sì né no, prudente, da uomo avvezzo a muovere sette volte la lingua in bocca prima di lasciarsi scappare una minchioneria. Ci pensava su, badava alle conseguenze, badava alla sua figliuola, anche russando, con un occhio aperto. Non voleva che la ragazza così giovane, così inesperta, senza sapere ancora cosa volesse dire esser povero o ricco, s'avesse a scaldare il capo per tutte quelle frascherie. Lui era ignorante, uno che non sapeva nulla, ma capiva che quelle belle cose erano trappole per acchiappare i gonzi. Gli stessi arnesi di cui si servono coloro che sanno di lettere per legarvi le mani o tirarvi fuori dei cavilli in un negozio. Aveva voluto che la sua figliuola imparasse tutto ciò che insegnavano a scuola, perché era ricca, e un giorno o l'altro avrebbe fatto un matrimonio vantaggioso. Ma appunto perch'era ricca tanta gente ci avrebbe fatti su dei disegni. Insomma a lui non piacevano quei discorsi della zia e il fare del nipote che le teneva il sacco con quell'aria ritrosa di chi si fa pregare per mettersi a tavola, di chi vuol vender cara la sua mercanzia. E le occhiate lunghe della cuginetta, i silenzi ostinati, quel mento inchiodato sul petto, quella smania di cacciarsi coi suoi libri in certi posti solitari, per far la letterata anche lei, una ragazza che avrebbe dovuto pensare a ridere e a divertirsi piuttosto... Finora erano ragazzate; sciocchezze da riderci sopra, o prenderli a scappellotti tutt'e due, la signorina che mettevasi alla finestra per veder volare le mosche, e il ragazzo che stava a strologare da lontano, di cui vedevasi il cappello di paglia al disopra del muricciuolo o della siepe, ronzando intorno alla casina, nascondendosi fra le piante. - Don Gesualdo aveva dei buoni occhi. Non poteva indovinare tutte le stramberie che fermentavano in quelle teste matte, - i baci mandati all'aria, e il sole e le nuvole che pigliavano parte al duetto - a un miglio di distanza, - ma sapeva leggere nelle pedate fresche, nelle rose canine che trovava sfogliate sul sentiero, nell'aria ingenua d'Isabella che scendeva a cercare le forbici o il ditale quando per combinazione c'era in sala il cugino, nella furberia di lui che fingeva di non guardarla, come chi passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca che vuol comprare senza darle neppure un'occhiata. Vedeva anche nella faccia ladra di Nanni l'Orbo, nel fare sospettoso di lui, nell'aria sciocca che pigliava, quando rizzavasi fra i sommacchi, mettendosi la mano sugli occhi, per guardar laggiù, nel viale, o si cacciava carponi fra i fichi d'India, o veniva a portargli dei pezzi di carta che aveva trovato vicino alla fontana, dei calcinacci scrostati dal sedile, facendo il nesci: - Don Gesualdo, che c'è stato vossignoria, lassù?... Alle volte... per far quattro passi... L'erba sulla spianata è tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri, no, eh?... Ho paura di quelli del colèra piuttosto. - No... di giorno?... che diavolo!... bestia che sei!... Non temere, qui stiamo cogli occhi aperti. E ci stava davvero, con prudenza, per evitar gli scandali, aspettando che terminasse il colèra per scopare la casa, e finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoi senza dar campo di parlare alle male lingue, rimbeccando la zia Cirmena che s'era messa a far la sapiente anche lei, a parlare col squinci e linci; tagliando corto a quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna. Un giorno, presenti tutti quanti, sputò fuori il fatto suo. - Ah... le canzonette? Roba che non empie pancia, cari miei! - La zia Cirmena si risentì alfine: - Voi pigliate tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire... Vorrei vedervici!... - Egli allora, col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri e giornali ch'erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per le spalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negozio, vociando così forte che sembrava in collera, fra le risate: - Be'... pigliateli, se vi piacciono... Potrete camparci su!... Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senza dire una parola, ed uscì dalla stanza. - Ah!... - borbottò don Gesualdo. - Ah!... Ma visto che non era il momento, cacciò indietro la bile e voltò la cosa in scherzo: - Anche a lei... le piacciono le canzonette. Come passatempo... colla chitarra... adesso che siamo in villeggiatura... non dico di no. Ma per lei c'è chi ha lavorato, al sole e al vento, capite?... E se ha la testa dura dei Trao, anche i Motta non scherzano, quanto a ciò... - Bene, - interruppe la zia, - questo è un altro discorso. - Ah, vi sembra un altro discorso? - Ecco! - saltò su donna Sarina, pigliandosela a un tratto col nipote. - Tuo zio parla pel tuo bene. Non lo trovi, un parente affezionato come lui, senti! - Certo, certo... Voi siete una donna di giudizio, donna Sarina, e cogliete le parole al volo. La Cirmena allora si mise a dimostrare che un ragazzo di talento poteva arrivare dove voleva, segretario, fattore, amministratore di una gran casa. Le protezioni già non gli mancavano. - Certo, certo, -

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