Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 49

Testo di pubblico dominio

casa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte. Don Ninì narrava a tutti la stessa cosa, asciugandosi gli occhi e soffiandosi il naso gonfio quasi suonasse la tromba. Appena vide giungere anche il notaro Neri non si mosse più dal capezzale della mamma, domandando al medico ogni momento: - Che ve ne sembra, dottore? Riacquisterà la parola? - Col tempo, col tempo, - rispose infine il medico seccato. - Diamine, credete che sia stato come fare uno starnuto? Don Ninì non si riconosceva più da un giorno all'altro; colla barba lunga, i capelli arruffati, fisso al capezzale della madre, oppure arrabattandosi nelle faccende di casa. Non usciva una fava dalla dispensa senza passare per le sue mani. Tant'è vero che i guai insegnano a metter giudizio. Sua madre stessa glielo avrebbe detto, se avesse potuto parlare. Si vedeva dal modo in cui gli guardava le mani, col sangue agli occhi, ogni volta che veniva a prendere le chiavi appese allo stipite dell'uscio. E anche lui, adesso che la roba passava per le sue mani, comprendeva finalmente i dispiaceri che aveva dato alla povera donna; se ne pentiva, cercava di farseli perdonare, colla pazienza, colle cure amorevoli, standole sempre intorno, sorvegliando l'inferma e la gente che veniva a farle visita, impallidendo ogni volta che la mamma tentava di snodare lo scilinguagnolo dinanzi agli estranei. Sentiva una gran tenerezza al pensare che la povera paralitica non poteva muoversi né parlare per togliergli la roba siccome aveva minacciato. - No, no, non lo farà! Son cose che si dicono in un momento di collera... Vorrei vederla!... Sono infine il sangue suo... Morirebbe d'accidente lei per la prima, se dovesse lasciare la sua roba a questo e a quello... Parte terza I L'Isabellina, prima ancora di compire i cinque anni, fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell'uffizio anche, e ogni cosa come la figlia di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dote non le sarebbe mancata, perché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s'era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giorno, rosa dal baco che s'era mangiati tutti i Trao, e figliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta ai nemici. - Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio maschio, né l'aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago, un'ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover'uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! - Una moglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in peccato mortale, ogni volta, e il prete non ci avesse messo su tanto di croce, prima, quand'ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull'olivo. Ella, poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo... Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di quello che aveva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao... Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E se Domeneddio l'aveva gastigato giusto nei figliuoli che voleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogli una bambina invece dell'erede legittimo che aspettava, Isabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancava a lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi indovinasse d'aver poco da vivere, non avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era lui, don Gesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo: non le faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale come se gli avesse portato una grossa dote. Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando paragonava la casa in cui il Signore l'aveva fatta entrare con quella in cui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le coperte... Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l'avessero aiutato con bella maniera, senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar nulla, col cuore largo quanto un mare, quell'uomo! Gli stessi parenti di lei glielo dicevano: - Tu non hai parole per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch'è il padrone, e cerca il meglio della tua figliuola. Poi considerava ch'era il Signore che la puniva, che non voleva quella povera innocente nella casa di suo marito, e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forza, e si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. Don Gesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tanti interessi grossi sulle spalle, ed era abituato a vederla sempre così, con quel viso, non ci badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più disfatta del solito, le diceva per farle animo: - Vedrai che quando avrai messo in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. È come strapparsi un dente. Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla poca salute che hai. E bisogna che quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da piccoli, ciascuno secondo il suo stato... Lo so io!... E non ho avuto chi mi aiutasse, io! Quella piccina è nata vestita. Nondimeno, all'ultimo momento vi furono lagrime e piagnistei, quando accompagnarono l'Isabellina al parlatorio del monastero. Bianca s'era confessata e comunicata. Ascoltò la messa ginocchioni, sentendosi mancare, sentendosi strappare un'altra volta dalle viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla. Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro, un presepio del Bongiovanni che pigliava un'intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l'aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d'occhi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Mèndola di seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch'era fratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore colle penne, i cugini del babbo che possedevano cinque feudi l'uno attaccato all'altro, nello stato di Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d'anno, come la piccola Isabella riceveva altri regali più costosi, un crocifisso d'argento, un rosario coi gloriapatri d'oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, nascevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un'immagine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d'alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell'orecchio

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Argomenti: naso gonfio,    cuore largo

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