Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 6

Testo di pubblico dominio

accoramento in quel nome di Cesare, che non usava mai parlando con me, ch'io compresi tutta la grandezza della preghiera. Egli non voleva esser vile, nè sfigurare davanti agli amici, che potevano, chi sa? credere a una segreta intesa della madre col figlio; non voleva comparire brutto, osceno di sangue innanzi a lei. Ma la donna era più forte di me. Cacciato via l'oste con un pugno terribile nel petto, si era buttata sull'uscio col vigore della sua robusta costituzione di popolana e con scosse forti da sfondare un muro non che un assito tarlato, procurava di levarlo dai cardini, sempre gridando con quella sua voce assassina:—Cani, cani, cani!—Dietro di me inferociva la battaglia; ma non era certo meno feroce la battaglia ch'io sostenevo contro quella donna pazza d'amore e di dolore. Dovevo forse permettere che si cacciasse in mezzo alla carneficina? Ho detto carneficina?—ho sbagliato. Tranne una volta o due, cosa di piccola importanza, il duello era stato regolarissimo e il verbale è là a disposizione di chi vuol vedere. Ma in quel momento non sapevo nemmeno io in che mondo fossi. Massimo era caduto e si rotolava in una pozza di sangue, vomitando sangue dalla bocca sull'ammattonato. Sentii che sarei caduto anch'io come uno straccio, se non mi fossi tenuto ben stretto al catenaccio e all'uscio che la vecchia tempestava coi pugni, coi calci, strillando sempre con voce lacerata dal pianto:—Cani, cani, cani! Vi fu un gran trambusto nella sala à manger del sor Fabrizio. Il Dassi bianco come un foglio di lettera, guardava Massimo e pareva irrigidito. I padrini e i dottori sollevarono il morente e lo portarono in uno stanzino contiguo sopra un pesto e troppo usato divano. La donna entrò in quel momento. Com'era entrata? non so. Essa vide, capi, fece alcuni passi e cadde come un cencio in terra nel sangue. L'oste che non si aspettava una catastrofe, cominciò a correre, a chiamare, a sbuffare, a bestemmiare. Non saprei dire come portassero via anche la donna che pareva morta anche lei. Non so più nulla, come d'un brutto sogno di cui non resta nella memoria che la spaventosa impressione. Ricordo soltanto questo: il guattero entrò con due secchi di legno e cominciò a versar abbondantemente l'acqua sul pavimento; poi con due scope padrone e guattero cominciarono a lavare il suolo di tutta la porcheria. —Peggio che i beccai!—diceva il guattero spaventato. —Taci, asino!—borbottò l'oste—porta della crusca. * * * Quindici giorni dopo mi fu consegnato in redazione il seguente biglietto:—Dichiaro d'aver ricevuto lire cento. E grazie della spilla. Dott. Sirchi. ZOCCOLI E STIVALETTI ZOCCOLI E STIVALETTI Accadde quel che doveva accadere. Per quanto don Cesare sferzasse i cavalli, il temporale, che s'era andato raccogliendo fin dalla mattina, scoppiò e l'acqua cominciò e cadere una mezz'ora prima d'arrivare alla Castagnola. E bisognò pigliarla. —Ti avevo detto che non era una giornata, da fidarsi—cominciò a gemere donna Ines, che sedeva a fianco del conte sull'elegante phaeton,—Ma parlare con te e parlare col muro è lo stesso. —Brava, se i Castagnola ci aspettano….. —Si doveva mandare un telegramma, o partire col legno grande e col
Giuseppe.
—Che Giuseppe d'Egitto..!—brontolò il conte molto seccato. —Intanto rovini il legno e i cavalli. —Ai cavalli ci penso io… ep, là.—E il conte lasciò andare al capo delle bestie due belle frustate. I due cavalli fini non furono troppo persuasi di quel modo di pensare e acciecati anche dal bagliore dei lampi, flagellati da una pioggia grossa mista a gragnuola, cominciarono a galoppare malamente, a strattoni irregolari, su per la riva rotta dal fango. Donna Ines strillò:—Fermati, fermati….. La povera contessa era livida di dentro e di fuori. E sfido! trovarsi lor due soli, in carrozza, per una strada deserta, con quel tempo in aria, con quei cavalli che don Cesare guidava quasi per la prima volta, via, chi si sarebbe divertito? La contessa, come sono in genere tutte le donne e come devono essere tutte le contesse, era un caratterino nervoso, molto impressionabile, proprio quel che ci voleva in certi momenti per andar d'accordo con un uomo ostinato e irragionevole come il conte. —Sacrr….—ruggì costui, accompagnando colla più energica delle sue bestemmie un terribile crac d'una ruota davanti, che fece piegare il legno da quella parte. Se non era pronto a saltar giù e a sorreggere la carrozza col suo gran corpo da gendarme, andavano tutti e quattro nel prato di sotto. —Sacr… s'è rotta la ruota davanti. Vien giù. —E come faccio a venir giù?—chiese la contessa con voce dolente mista di lagrime, di spavento e di rabbia. —Vien giù in qualche maniera, per Dio sacrr… Non vedi che devo tenere i cavalli? —Non c'è qui un uomo?—tornò a domandare la povera signora, a cui pareva impossibile che non ci fosse al mondo nemmeno un uomo per aiutarla a discendere. L'acqua veniva più grossa. I cavalli tenuti per il muso dalle mani di ferro del conte, scalpitavano, rinculavano, dando scosse al legno. Bisognò discendere, in qualche maniera; ma un lembo di pizzo della visite restò attaccato alla mécanique. —Se non te l'avessi detto, pazienza! che male c'era a condurre il
Giuseppe?
—Non far la stupida—rimproverò il gendarme—Apri l'ombrellino e piglia questo viottolo a destra. C'è un cascinale vicino. —Dove? —A destra, non a sinistra, oca! va a cercare qualcuno che venga a tenere i cavalli. Moro ha l'occhio spaventato. Se li lascio andare si accoppano questi accidenti sacrr… Non era il momento di far questioni filologiche. Sotto il parasole di satin la contessa cercò la stradetta, saltando come potè sulle pozze d'acqua e prese a correre verso il cascinale che distava un trecento passi. Proprio in quel momento si aprirono le cateratte del cielo. L'istinto di conservazione, rinforzato dalla bile e dall'odio contro l'asino imbecille che l'aveva tirata in quell'avventura, dettero alla povera signora una forza straordinaria, che a casa sarebbe subito scomparsa alla vista del più piccolo ragno. Ma come l'appetit vient en mangeant, così il coraggio viene dal bisogno d'averne. Lo scrisse lei stessa qualche giorno dopo in una lunga lettera a donna Mina Besozza: «l'occasion fait le larron: io che soltanto all'idea d'una fessura sento un reuma nel cuore, son uscita da quel diluvio senza il più piccolo raffreddore.» * * * Come arrivasse alla cascina Torretta è più facile immaginare che descrivere. Avendo un colpo di vento spezzato il parasole, la povera martire dovette camminare cinque minuti sotto quella benedizione, coi piedi in un velluto di fanghiglia, d'una fanghiglia cretosa che si appiccicava agli stivaletti, alle calze, alle balzane. L'acqua che defluiva dalle campagne finiva a formare un laghetto davanti alla casa, e dovette attraversarlo sotto le grondaie, che versarono un mezzo barile di colatura sul cappellino di paglia. —Non c'è qui nessuno?—gridò ricoverandosi sotto un rustico portichetto, appena potè tirare il fiato.—Si è rotta la ruota d'una carrozza. Ehi, di casa!—Provò a scotere il paletto e a spingere un vecchio uscio sgangherato che lasciò vedere una cucina affumicata piena di mosche. Davanti al camino stava seduto un vecchio massaio colle mani aperte su un focherello invisibile, immobile sulla sua sedia di legno come se fosse anche lui lavorato nel legno. —Galantuomo! non c'è nessuno? Il vecchio di legno non si mosse. Era sordo. —Va al…—fu per dire la povera donna che, trascinandosi dietro le sottane impegolate, andò a chiedere aiuto a un altro uscio. Era (pardon) una stalla. Un uomo sui quarant'anni, rosso di pelo, con una gola larga, colle braccia e colle gambe ignude, si affacciò reggendo una forchetta non da dessert e parve impaurito di vedersi davanti una figura vestita a quel modo. Se ne contano delle storie nelle stalle! e coi temporali, si dice, vanno intorno anche le anime dei poveri

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Argomenti: vecchio uscio,    pugno terribile,    stanzino contiguo,    brutto sogno,    legno grande

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