Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 23

Testo di pubblico dominio

Bisognerebbe inventare uno stile apposta per dir bene certe profondità della psiche. Il caffè del Paolo è una bottega all'antica, che conserva una vecchia clientela di gente pia e religiosa, non vi si fa musica, non vi si vedono giornalacci. Gli specchi riquadrati in cornici di legno color zucchero brulè, hanno la vista languida: i tavolini stanno ancora come una volta su quattro gambe: su quattro gambe stanno anche gli sgabelli coperti di cuoio: tutto insomma è quadrato sull'archetipo ideale d'una tavoletta di caraca fina. I divani, rasenti al muro, sono coperti di vitello con borchiettine di ottone e in fondo, dietro il banco, cigola un armadio di noce, che il nonno del Paolo comprò per ottanta svanziche all'asta del marchese Rescalli. È verso le sette e mezzo che la sora Peppa comincia a brontolare. La sora Peppa non è la sorella, non è la moglie del Paolo, che ha giurato di morir celibe, ma il nome di una grossa cocoma di rame, dai fianchi larghi, dal labbro sporgente che, secondo l'idea di don Procolo, aveva in quei tempi una grande somiglianza colla sora Peppa Schineardi, priora di S. Maria Segreta. Son cose, (direte) piccine di gente piccina; ma abbiamo noi forse ricevuto dal genio nostro l'incarico di costruire il Sopra-Uomo? mai più. A noi piacciono gli uomini come natura li fa, presso a poco come a don Procolo piacevano i navicellini appena usciti dal forno. Solamente procuriamo di raccogliere in questi modesti documenti qualche ultima nota della semplice bonarietà umana. Ho detto che di giornalacci il Paolo non ne vuole in bottega, La più eretica è donna Paola, cioè la Perseveranza, che don Procolo legge volentieri, perchè vi si difende qualche volta il Rosmini. C'è l'Osservatore Cattolico la Gara degli Indovini e basta. Niente Secolaccio! niente robaccia illustrata che riporti roba poco vestita, e ciò per principio, e poi anche per rispetto ai ragazzi e alle ragazze, che vengono colle loro mammine a mangiare il caffè e panna dopo essersi confessati e comunicati. * * * Tra i soliti, oltre a don Procolo, viene tutte le sante sere d'inverno il signor Tazza, detto Battistone, maggiore in pensione, un avanzo di Crimea, grande grosso come una torre, celibe anche lui, già sull'invecchiare. Più sul tardi ci viene anche il Cavaliere (il nome preciso non l'ho mai saputo per colpa di questo benedetto titolo). È un uomo sui cinquant'anni, magro, pulito, grazioso, impiegato in uno dei molti uffici del Demanio, celibe anche lui. Non sempre, ma ci vien spesso l'avvocato Chiodini, che par sempre che caschi dalle nuvole o che esca da un mucchio di cenere per quel suo colore slavato, per que' suoi occhietti cenericci, pieni di fumo, ma non senza malizia. In cause di condotta d'acqua si vuole che guadagni de' bei denari. Anch'egli è celibe, nel senso legale della parola. * * * Una volta non ci mancava mai anche Carlinetto, detto 'legrìa, sempre giovine e sempre biondo, sebbene camminasse anche lui verso l'età canonica. Carlinetto, impiegato alla Congregazione di Carità, non solo era un gran raccoglitore di francobolli e un filatelico appassionato, ma conosceva tutti i bugigattoli dove ci fosse del vin rosso potabile: talchè «i soliti» davano sempre a lui l'incarico di ordinare i pranzetti straordinari le poche volte che di primavera o d'autunno uscivano a far un po' di baldoria in qualche osteria suburbana. Senza Carlinetto che sapeva, dirò così, cucire le ciarle degli altri, far la rima e il calembour sulle parole, don Procolo, Battistone, il Cavaliere, il Chiodini erano come tanti organetti senza il manubrio. Carlinetto, invece, detto «'legrìa» con quella sua faccia rossiccia da bambola, con quei suoi occhietti che ballavano dietro gli occhiali, con quel nasino corto e gobbo, col suo argento vivo che gli usciva dalle gambe, co' suoi eh, eh, eh, eh,… che parevan la trombetta dei pompieri, avrebbe fatto ridere i tavolini del Paolo. Se poi c'era di mezzo una bottiglia di buon vino potabile, Carlinetto diventava un raggio di sole. Una volta c'era in bottega la sora Peppa Schincardi e la fece tanto ridere, che la povera donna fu costretta a moversi: e chi conosce un poco di vista la priora capirà che cosa voglia dire far ridere una beghina come quella. Era una festività contagiosa, alle volte senza sugo. Cominciava Carlinetto a dire, per esempio:—Oggi ho mangiata la frittata eh… eh!…—E il Paolo ripeteva:—Ha mangiata la frittata eh! eh!—Poi subito don Procolo:—Tu hai mangiata la frittata…. E il Chiodini:—Egli ha mangiata la frittata… Egli altri:—Noi mangeremo la frittata….. E tutti:—Perchè non si mangia una frittata?—Si mangi una frittata…—E quando la frittata vera faceva il suo ingresso nel salottino «i soliti» ridevano a tenersi il ventre colle mani. Nessuno aveva per la testa in quel momento che un uomo possa aver sete dell'irraggiungibile o di qualche altro ideale dell'altro mondo; per la frittata non c'è di meglio che il vin bianco secco. Ma capitò anche a Carlinetto ciò che capita quasi sempre ai ragazzi di buon cuore. Una certa signora Letizia, già sua padrona di casa, un falchetto di donna, dopo averlo tenuto sulla frasca due o tre anni per conto suo, venuta a morire improvvisamente, gli raccomandò al letto di morte due sue figliuole, Erminia e Paolina, che non avevano più nessuno al mondo. Carlinetto, preso per la punta del cuore, per quanto amasse la sua santa libertà, il solito tarocchino, la pesca nel Lambro, e quel non pensarci che è la più gran fortuna dell'uomo libero, per quanto chiudesse gli occhi al fuoco di fuori e a quel di dentro, non potè a lungo rimanere insensibile alle lagrime dell'Erminia (una bella bionda di vent'anni impiegata nei magazzini Bocconi). Tentennò un pezzo tra il sì e il no, tra il voglio e il non posso, finchè un giorno vide ch'era meglio sposarsela e cadde sulla fiamma della candela. I «soliti» quando seppero questa grande novità, rimasero profondamente addolorati, come se avessero sentito dire che Carlinetto s'era appiccato a una finestra. Poi si sfogarono contro di lui, che non li aveva nemmeno consultati sulla scelta della corda. Si sapeva chi era stata la sora Letizia…. Don Procolo, che non usava perifrasi con nessuno, cominciò a dire ch'egli era stato un asino: che a credere alle donne uno non si salva più, fosse già nell'anticamera del paradiso: che ad impiccarsi un uomo ha sempre tempo…. Carlinetto fu per la compagnia un uomo perduto e rovinato per sempre. Per quindici giorni «i soliti» furono d'un umor tetro come la tappezzeria della bottega, e se ne accorse anche la Marittima una sera che si permise qualche insistenza colle calze del prete. Dal giorno del suo matrimonio, vale a dire da circa tre anni, Carlinetto non si era più lasciato vedere dal Paolo. Qualche volta Battistone raccontava d'averlo incontrato in Cordusio, ma non era più il Carlinetto d'una volta. Magro, colla barba lunga, coi calzoni corti….. pareva anche mal vestito. Il Cavaliere avrebbe buttata via la testa, quando ci pensava. I conti eran subito fatti: Carlinetto col suo impiego alla Congregazione, a star bene, non tirava duemila lire: e con duemila lire, a Milano, non si vive in tre, anzi in quattro, perchè allo scoccar dei nove mesi il bimbo fu pronto come una cambiale. E le bionde hanno anche dei capricci, si sa. Povero asinel povero 'legrìa! I soliti provavano tanta rabbia, che avrebbero pianto. Chi lo vedeva brutto e malato. Chi diceva che s'era ridotto in quattro miserabili stanzette laggiù nei quartieri di porta Volta, vicino al cimitero. Chi sapeva di certo che oltre ai lavori di ufficio teneva anche i conti di un droghiere e l'amministrazione delle ossa dei Morti a S. Bernardino. Già s'intende, non più caffè, non più sigaro, non più vin bianco, non più pesca all'amo, non più tarocchino. Casa e ufficio: ufficio e casa, moglie, bimbo, fascie….. e miseria! E che cosa gli mancava a quel satanasso per vivere più felice d'un

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Argomenti: grande somiglianza,    semplice bonarietà,    senso legale,    argento vivo,    frasca due

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