Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 13

Testo di pubblico dominio

coi tetti d'ardesia; in mezzo torreggia il massiccio edificio del grand Hotel, d'un pesante gusto normanno, salvo errore, che non dispiace agli inglesi, i quali, una volta dentro, s'immaginano di essere a casa loro. Questo piacere raffinato di desiderare dappertutto il chez soi, quanto progredirà nei gusti, finirà col rendere quasi inutile il viaggiare. Quando sarò ben sicuro che dappertutto troverò i comodi di casa mia, e nient'altro di quel che ho in casa mia, potrò viaggiare pacificamente seduto in una poltrona. E sarà anche più economico. A questa raffinatezza di godimenti casalinghi non era ancora arrivata la bella bionda miss Dy, che da tre mesi viaggiava l'Europa in compagnia di sua madre e di miss Tennis sua istitutrice. Giovine e vivace, miss Dy non approvava il contegno irrigido di molto sue compatriote, che fanno consistere la superiorità dello spirito nel non aver viscere di curiosità o di tenerezza per nulla al mondo, come se sapessero già tutto a memoria. Al contrario miss Dy (abbreviatura di Diana), come la dea di cui portava il nome, amava correre sui prati, gridare sullo cime, esaltarsi all'italiana davanti a un bel punto di vista, suscitando i più vivi scandali in miss Tennis, che trovava tutto ciò molto shocking. «Una vera signorina inglese—soleva dire la vecchia istitutrice—quando muore ed entra in paradiso, si mette a sedere al suo posto, non si meraviglia di quel che vede e aspetta contegnosa e indifferente che finisca l'eternità.» Miss Dy non sapeva rassegnarsi a questo sistema colle stecche e usando della forza del suo carattere, riusciva spesso a trascinare la povera maestra fin sulla soglia della sconvenienza e dello snobismo, ridendo in cuor suo un po' crudelmente degli spaventati shocking, con cui la rigida creatura cercava di esorcizzare se stessa e l'allieva. Un giorno, più disobbediente del solito, col protesto di cercare degli Edelweiss, la biricchina cominciò a scalare la rovinosa morena del ghiacciaio, sorda ai rimproveri della istitutrice, che non voleva assolutamente seguirla. Sebbene non ci sian pericoli gravi, e all'orlo del ghiacciaio si vada quasi di piano, tuttavia il camminare tra i massi granitici, le erosioni e i detriti non è come andare al corso. Miss Tennis, sfiatata, colle gambe rotte, dopo un po' si posò a sedere, mentre la fanciulla arrestavasi, presa e imprigionata tra enormi blocchi ammassellati in uno spaventevole disordine, come la rovina d'un immenso castello ciclopico. Il luogo era bello, sublime, ma da quella sorta di buca non si poteva uscire se non scalando coi piedi e colle mani tre o quattro macigni duri, ostinati, che parevan messi lì a cozzar l'un contro l'altro. Provò due o tre volte, ma non si arrischiò; finalmente, aiutandosi colle delicate unghiette, potè mettere un piede di qua, l'altro di là, tentare un saltuccio… ma il piedino scivolò in una fratta e vi restò impigliato come dentro una tagliola. Nel cadere confregò il ginocchio lungo le scabrosità del sasso e sentì quel che costa il disobbedire. Il dolore le cavò un grido; al grido rispose un altro grido. La fanciulla non era in grado di muoversi e Miss Tennis ancor meno di lei. E non c'era anima viva… Mio Dio, che fare? gridare ora l'unico rimedio. E il gridare di quelle due colombe fu tale, che ben presto si vide sbucar della gente (ce n'è sempre nei dintorni, che va o torna colle guide). Un signore, vista la povera signorina impotente a muoversi, superò con prestezza alcuni scaglioni, giunse fino a lei, la prese rispettosamente per le braccia, sotto le braccia…. (eh, ci vuol pazienza in certi casi) la trasse fuori dalla trappola: la fece sedere, lo spruzzò il viso d'un licor forte che aveva con sè, e parlando italiano, la compassionò, la confortò e usò verso di lei quello cortesie, che ogni animo pietoso sa trovare in questi momenti. Miss Dy, stringendo nelle mani il suo povero ginocchio, ringraziò anche lei in un italiano duretto, come una penna d'acciaio, ma raddolcito dalla voce e dallo sguardo pieno di riconoscenza; e poichè il male si riduceva a una scalfitura, pregò il suo bravo salvatore d'aiutarla a discendere fino al luogo, dove miss Tennis più morta che viva raccomandava gli spiriti alla boccetta della canfora. Quando l'istitutrice fu certa che non c'era nessuna gamba rotta, ringraziò in un suo francese sconnesso lo sconosciuto signore, sforzandosi di fargli capire che ora sarebbe stato molto convenable che andasse a raggiungere i suoi compagni di viaggio; ma il bravo uomo non capiva il francese; e l'inglese ancor meno. Credendo di essere gradito, offrì di accompagnare la signorina fino alla Latteria, dove avevano lasciata la carrozza. Il moto e il discorrere in una lingua non sua fecero dimenticare a Miss Dy il dolore del suo povero ginocchio. —Siete italiano? —Sì, damigella. —Toscano? —Milanese. —Amo molto io gli italiani. Siete pittore? —Musicista, damigella, —Oh, adoro la musica! —È il linguaggio degli angioli,—esclamò lo sconosciuto, con una nota tenuta, come si dice nel gergo del mestiere. E su queste frasi, giunti alla Latteria, sedettero ad aspettare la povera miss Tennis, che tremando ancora in tutto il corpo, stentava a levar le gambe dalle ultime asprezze del sentiero. Si ripassò tutto il repertorio classico e romantico, Beethoven, Chopin, Berlioz, Wagner e la musica italiana, che miss Dy amava sopra ogni altra. —Se le signore sono alloggiate al Kursaal, avremo occasione di rivederci—disse finalmente l'italiano, offrendo il suo biglietto di visita sul quale miss Dy lesse: Napoleone Barbetta, professore d'orchestra nel Regio Teatro della Scala. —Lei pure è dell'orchestra che deve dare concerti all'Hotel? —Vous aussi…? —Sì, yes, per compiacerle,—rispose Napoleone Barbetta, arrossendo come un ragazzo. —Bravo, applaudiremo di cuore… con gratitudine…,—soggiunse la bionda e cara fanciulla, stendendogli la mano con franchezza inglese e stringendo quella del suo salvatore con un moto del braccio che pareva dire; —A rivederci, caro, Cinque minuti dopo, la carrozzella partì, lasciando lord From quasi estatico. * * * Lord From era il soprannome che i compagni d'orchestra davano a Napoleone Barbetta, primo contrabasso di sinistra; e glielo appioppavano non solamente per un non so che di roseo e di biondeggiante, che lo facea somigliare a un aristocratico inglese, ma anche, e più, per un certo sussiego di carattere e per un'aria grave di diplomatico, per un tono quasi sdegnoso ch'egli aveva per ogni cosa che non fosse all'altezza de' suoi meriti. Ritto, composto, un po' calvo, elegante e irreprochable nelle sue camicie di porcellana e nelle sue cravatte, lord From, nella sua austera semplicità, aveva una grandissima fede nel suo fascino sulle belle signore; e s'illudeva al punto d'innamorarsene sul serio e d'ammalarsi, quando alle dolci illusioni succedevano gli amari disinganni. Appoggiato colla schiena alla cancellata dell'orchestra dominava dal suo posto la scena, la platea e tre quarti dei palchetti, dove brillano gli astri più luminosi della bellezza milanese, e di qua durante le battute d'aspetto, i suoi grandi occhi azzurri e sentimentali giravano come due cannocchiali. Puntiglioso o suscettivo come ogni vero artista, viveva nel consorzio non sempre elevato de' suoi compagni d'arte un po' in disparte, per paura che le gente ordinaria non entrasse a parte de' suoi riservati pensieri, non accorgendosi che nulla è più ridicolo a questo mondo quanto un uomo che non ride mai. Ma i compagni ridevano anche la parte sua, e il nome di lord From, trovato in un momento di buon umore dal celebre violinista Bernardini, parve a tutti così fatto al suo dorso, che ormai non lo chiamavano in nessun'altra maniera. —Questa volta lord From naviga nelle acque inglesi,—-disse il primo clarinetto. —Volete credere ch'egli s'illude di saper parlare inglese? mi ti liebig pik nik jes… oh, jes!—soggiunse ridendo il

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Argomenti: sguardo pieno,    bravo uomo,    certo sussiego,    massiccio edificio,    contrario miss

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