Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 25

Testo di pubblico dominio

aprire il ragazzo del fornaio, che aveva riportato qualche cosa. La voce di Carlinetto gridò dal fondo della stanza: —Siete voi? —Nos numerus sumus et fruges consumere nati. —Avanti don Procolo, l'uscio in faccia. Sono occupato a voltare il bestione, che è stanco di cuocere sul fianco. A queste parole tenne dietro un friggío di burro e un profumo delizioso, che aggiustò la coscienza frusta di don Procolo, il quale per non guastare l'avvenire si era limitato sulla colazione. Andarono avanti e si trovarono in un salottino rettangolare, addobbato con un certo buon gusto. Sul caminetto ardeva un bel focherello e gli stavano davanti alcune poltroncine coperte di una tela bigia, con bottoncini bianchi e con bracciolini freschi di ricamo all'uncinetto. Un piccolo divano appoggiato alla parete lasciava a stento il posto per un pianoforte verticale, che reggeva due candele accese. Sul camino c'era la solita specchiera, la solita pendola di bronzo, fra due campane di vetro, coi soliti fiori di pezza. Qua e là qualche fotografia, qualche cespuglio d'erba sempreverde, di lauro o di edera per far boscaglia nei luoghi più nudi; una cosettina insomma modesta, ma pulitina proprio, che lasciava intravedere la manina di buon gusto. Al Cavaliere avvezzo al lusso grandioso di casa sua, quell'addobbo limitato di «volere e non posso» parve un altro segno della strettezza in cui s'era cacciato a vivere il povero Carlinetto; e dètte al prete un'occhiata che voleva dire ancora: povero diavolo! Il prete invece abituato a dormire in una tana, rispose con una occhiata di meraviglia. Ma come due filosofi non riuscirono ad intendersi, perchè entrò Carlinetto che finiva d'asciugarsi le mani. Quando furono bene asciutte, stese la destra prima alla santa madre chiesa, poi agli ordini costituiti, e cominciò a ridere. «'Legrìa» era un uomo di mezzana statura, colla fronte piuttosto alta e bianca, con pochi capelli chiari, cogli occhi grigi, vivi, pieni di bontà. Allegro, ingenuo, incapace di star quieto colle gambe, apparteneva alla classe di quei buoni figliuoli di ingegno non molto esteso, che i grandi individualisti non possono nè tollerare nè compatire. Ma se gli mancava la potenzialità d'un cenobiarca che si mangia in uno sbadiglio l'universo, era un uomo caldo di cuore, un diligentissimo vicesegretario, un animo capace di rendere un buon servigio anche a una persona antipatica: era poi un marito modello. —Vedeste il bestione! ha preso un abbronzato magnifico. —Ci avrai messo, immagino, la sua bella fascia di prosciutto—domandò il prete. —S'intende. Il prosciutto asciuga il grasso del dindo e gli dà un saporino filosofico… eh! eh! —E nella pancia, che gli hai messo nella pancia? —Un ripieno di salsiccia con prugne di Provenza e qualche castagna. —Va, Carlinetto, tu sei all'altezza dei tempi. Ti ho portato un vasetto di mostarda. —È dolce? —Di miele… Alle signore piace il miele. È dolce come il mio cuore…—soggiunse ridendo don Procolo, che cominciava a sgranchire l'appetito nel tepore della sala e nel buon odore che veniva dalla cucina. —Mia moglie vi prega di perdonarle, se per il momento c'è Bebi che ha bisogno di lei. —Chi è questo Bebi? —Il grande, il terribile Bebi. —Quello della carota? —No… suo fratello, Eh! eh! eh!—Carlinetto si appoggiò al pianoforte per rider meglio.—L'ho poi trovata la carota quella famosa notte—soggiunse, rivolgendosi al Cavaliere—ma ho dovuto picchiare alla porta di tre erbivendole, finchè ne trovai una più pietosa che me la buttò dalla finestra. Un orso, a cui col mio picchiare avevo rotto il sonno sul più bello, mi scagliò dal terzo piano un cavastivali, che se mi piglia giusto, mi faceva nascere una carota sulla zucca. Eh, eh, eh… Il ridere elettrico e d'un suono metallico con cui Carlinetto accompagnò il suo racconto, cominciò a far solletico anche al cuore mal disposto dei soliti. Il Cavaliere a ridere faceva ah, ah, ah… Il prete: oh, oh, oh, mostrando tutti i denti e la immensa cavità della bocca. La ragione di questa musica la si capisce: gli organetti ritrovavano il manubrio. —E Battistone? —Di Battistone—disse il Cavaliere—ho da raccontarne una bellissima. —Allora sedetevi, mentre vi preparo un bicchierino di amaro tonico di Pavia, un amaro che aguzza l'appetito come una lesina. Accostatevi al fuoco, asciugatevi i piedi. —Battistone—ripigliò il Cavaliere—questa mattina mi mandò un biglietto con queste parole:—Siamo alle solite. Ludovina non vuole che vada a pranzo fuori di casa senza di lei. Mandami il telegramma dello zio Catarro. —Chi è questa sora Ludovina che non vuole?—chiese Carlinetto. —È la Perpetua, la serva padrona—brontolò il prete. —Non ti ricordi quella contadina grassa come una pollastra, che cammina come una trottola? —Quella di Vercurago? —Bravo! —E che c'entra lei per proibire al suo padrone di andar dove vuole? —Ma…! misteri del cuore umano, caro mio…. —Le donne c'entran sempre—brontolò il prete—Le donne passano dappertutto, specialmente quando son grasse. —Che cosa mi raccontate! Battistone, così grande, così grosso, così serio, si lascierebbe comandare da una donna di servizio…. Dunque non avremo con noi il nostro Battistone…. —Verrà, verrà, forse un po' più tardetto, ma verrà. Ora salta in scena lo zio Catarro. Bisogna sapere che Battistone ha uno zio vecchio vecchio, più che ottuagenario, molto ricco, dal quale spera di ereditare un bel gruzzolo di denari. La Ludovina, che forse al gruzzolo ci tiene più ancora che il suo padrone, non vuole che Battistone lasci scappare nessuna occasione per mostrarsi pio, amoroso, pieno di carità verso il povero zio asmatico. Tutte le volte che il servitore dello zio Catarro (lo chiamiamo così per far presto) gli manda un telegramma d'allarme, Battistone piglia la valigia e corre a Como ad assisterlo. Così tutte le volte che le scene di gelosia della Perpetua gli fanno perdere la pazienza, mi scrive un bigliettino e io in risposta gli mando un telegramma con queste parole, per esempio:—Zio non dorme—Zio olio santo—-Zio catarro…. La serva ignorante e analfabeta, che ha una gran fede nel telegrafo, mette una camicia nella borsa e beve. Battistone fa un giro intorno alla stazione e viene a pranzo da me: poi andiamo a teatro, o si va fuori di porta, come due studenti in vacanza. —Ah, ah, oh, oh, eh, eh…—Don Procolo si asciugò gli occhi bagnati col suo fazzolettone turchino, esclamando:—Ah vecchi giovinastri! Quando il Cavaliere potè riprendere il fiato, continuò:—Ciò che oggi mi tiene in pensiero è che il telegramma dello zio Catarro l'ho mandato fin da mezzodì e io aspettavo Battistone non più tardi delle tre. Non vorrei che la serva si fosse messa in sospetto e avesse fiutato l'intrigo. —E quell'animale grazioso e benigno che risponde al nome di Chiodini, perchè non si vede ancora?—chiese il padrone di casa. —Questo l'ho incontrato un quarto d'ora fa, mentre correva a casa a cambiar le scarpe. Aveva in mano un gran panettone. Mi disse che sarebbe venuto subito. Il campanello sonò. * * * Poco dopo entrò Battistone alquanto scalmanato, colle orecchie rosse, con un ombrello sotto il braccio, una valigia in mano. E fu accolto da un vivo applauso. —Hai fatto buon viaggio? si temeva che tu avessi perduta la corsa. —Si temeva anzi di un deragliamento, o di uno scontro ferroviario. Carlinetto gli tolse la roba dalle mani e lo spinse verso il fuoco in mezzo agli altri due, che non cessavano di tormentarlo. Ma in quel momento entrò l'Erminia e i tre vecchi giovinastri si schierarono in fila come i soldati. Carlinetto cominciò le presentazioni. L'Erminia vestiva quell'abito color vino di Montevecchia che porta tutte le feste alla messa del prevosto a S. Maria alla Porta, quando la si vede raccolta nel suo gran velo nero, col libro di velluto sanguigno fra due morbidi guanti chiaretti, Al Sanctus

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Argomenti: povero zio,    piccolo divano,    cavaliere avvezzo,    lusso grandioso,    star quieto

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