Il colore del tempo di Federico De Roberto pagina 27

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moderno linguaggio chiamerebbero lenta encefalite». Queste righe di Pietro Giordani potrebbero trovar posto nei Precursori del Lombroso del dottor Antonini. Dove il prosatore piacentino diagnosticava una encefalite lenta, i filosofi contemporanei vedono, con l'autore dell'Uomo di genio, una nevrosi, una psicosi, una forma di epilessia. Max Nordau è stato seguace tanto fervente del Lombroso, che ha esteso la teoria oltre le intenzioni del maestro, sino a considerare la più gran parte degli ingegni artistici universalmente ammirati ai nostri giorni come il prodotto di una degenerazione; e Degenerazione appunto ha intitolato il libro nel quale ha discusso l'opera del Wagner e del Baudelaire, del Nietzsche e del Verlaine, del Tolstoi e del Maeterlinck, dello Zola e dell'Ibsen, non già da critico, ma da clinico; e da clinico non pietoso e neppure sereno, ma sgraziato e furioso contro i pazienti. Ora egli mette fuori un volumetto sulla Psico-fisiologia del genio e dell'ingegno, dove il lettore si fermerà stupito a questo passo: «Se io non dico nulla sulle cause che producono il genio, perchè sono ancora ignote, dirò qualche parola sulle relazioni del genio con la pazzia. Altri ha voluto assimilare le due cose. Per un gran numero di alienisti il genio è una nevrosi. Il mio illustre maestro Lombroso è più preciso: il genio è una forma di epilessia; dunque sempre patologico, dunque sempre degenerato. Io credo che questo sia un errore…». È proprio Max Nordau quello che scrive così? Abbiamo in mano un libro dell'autore di Degenerazione, o non piuttosto quella Fisiologia del Genio dove Giovanni Gallerani ha sottilmente confutato le affermazioni del Lombroso e della sua scuola intorno alla natura patologica delle menti sovrane? Le parole citate sono proprio del Nordau. E se il caso d'un discepolo ribelle al maestro è sempre notevole, tanto più notevole è questo, quanto che si riferisce ad una quistione palpitante, come si dice, di attualità. I. Veramente il Nordau non crede di essersi ribellato al Lombroso, ed è sicuro di essere rimasto d'accordo con sè stesso. Egli distingue i genî autentici da quelli che ne usurpano il nome ed il posto; e dice che, mentre il genio falso è certamente degenerato, il vero genio non è insano; può talvolta patire gravi disordini cerebrali, ma non già perchè nativamente infermo, bensì come scotto della rara potenza dei suoi organi. Lo scrittore crede pertanto di non lasciarsi cogliere in contraddizione: se nel suo primo libro diede nominatamente dell'idiota e del mentecatto a tanti ingegni novatori, ora li mette tutti in un fascio, biasimando che si chiami genio «l'imbecille estatico che si atteggia a profeta o ad artista e che sbalordisce con la sua assurda stravaganza la parte più disgustosa dell'esercito dei filistei: gli snobs estetizzanti…». Ma il tentativo del Nordau per evitare la contraddizione non è riuscito. Lasciamo per un momento da parte la distinzione fra genî autentici e pseudo-genî, fra genî di primo e di ultimo ordine: consideriamo il genio cui il Nordau concede di chiamarsi tale. Come il Gallerani, egli dice che la potenza di questo spirito straordinario, non solo non dipende da una lesione, da una infermità, ma è anzi l'effetto della perfezione, organica. Note anatomiche speciali egli nega al semplice ingegno; negli uomini d'ingegno non si troverebbe un sostrato organico particolare, uno sviluppo tutto proprio dei centri nervosi. Ogni uomo normalmente costituito può quindi essere uomo d'ingegno e riuscire ottimamente in una disciplina qualunque. Portando alle ultime conseguenze questo suo concetto, il Nordau afferma che l'ingegno non esiste, o almeno che con questo nome non bisogna intendere nulla di specifico: le persone che emergono in una determinata scienza o arte debbono questo risultato non ad una speciale qualità del loro cervello, ma al caso, cioè alle circostanze esteriori per forza delle quali furono spinte a coltivare quella scienza o quell'arte, e all'«applicazione», cioè alla severità, all'assiduità, alla coscienza con la quale la coltivarono. Tale modo di vedere non persuaderà molti; già il Sighele ha dichiarato che, senza la sua grande ammirazione per il Nordau, questa proposizione dello scrittore tedesco lo farebbe sorridere. Lo scrittore italiano giustamente osserva come tra due fanciulli posti nelle identiche condizioni, educati allo stesso modo, mandati a frequentare la stessa scuola, appariscano attitudini, vocazioni, tendenze diverse ed opposte: il fatto si ripete ogni giorno sotto i nostri occhi, e non si può spiegare senza ammettere quelle doti innate, quelle capacità originarie che il Nordau disconosce. La vocazione per una determinata attività è il più delle volte, a suo giudizio, una cosa tutta negativa; in altre parole: un giovane si mette a studiare, per esempio, la matematica, non già perchè si senta chiamato alla scienza, ma perchè è negato all'arte. Ora queste repugnanze, che sarebbero l'origine delle vocazioni, il Nordau le spiega con una deficienza organica, con una mancanza di sviluppo. Per non voler concedere un sostrato organico alle attitudini, egli lo ammette nelle inattitudini. È lecito dubitare dell'utilità di questa sostituzione e credere che sarebbe stato più semplice assegnare un fondamento anatomico alle capacità. Negate le naturali qualità dell'ingegno, egli le riconosce nel genio, ed afferma che l'uomo di genio differisce dall'uomo normale per uno speciale sviluppo di due centri cerebrali: i centri del giudizio e della volontà. Ma dove siano e come siano fatti questi centri, egli non dice e non può dire, perchè ancora nessuno li ha visti. «Quali sono», gioverà riferire le sue stesse parole, «questi centri, non sappiamo ancora esattamente; ma col tempo saranno scoperti». Siamo dunque nel campo della pura ipotesi; e certo, data l'angustia dello spirito umano paragonatamente alla formidabile e paurosa grandezza dei problemi che gli sono proposti, l'ipotesi non è uno strumento da disprezzare; ma, prendendo le mosse da semplici supposizioni, il Nordau arriva a conclusioni troppo assolute e veramente discordi. La sua massima argomentazione contro il principio lombrosiano della patologia del genio è la seguente: asserito dapprima che il genio è evolutivo, egli stesso comincia a dubitarne, e presume soltanto che consista nella prima comparsa, in un singolo individuo, di funzioni nuove e perciò di tessuti nuovi, o almeno straordinariamente modificati, i quali diverranno «forse» tipici nella intera razza; quindi chiede: «Ora c'è esempio che una neoplasia patologica sia evolutiva?» Egli ha già dimenticato il «forse» di due righe prima, ha preso per un fatto comprovato ciò che è e che egli stesso riconosce essere una mera ipotesi. E lasciamo anche andare che, mentre nelle operazioni del genio assegna una parte minima al caso, vuole poi che questo caso sia arbitro dei destini dell'ingegno; e lasciamo anche andare che, dopo aver fatto dipendere l'ingegno, oltre che dal caso, anche dall'«applicazione», la quale non è altro che volontà, sostiene poi che solo nel genio il centro della volontà è straordinariamente sviluppato, mentre nell'ingegno resta assolutamente eguale a quello di tutti gli uomini normali. Si dovrà pertanto affermare quel che il Nordau nega, cioè che il genio e l'ingegno differiscono in quantità, non mai in qualità? La conclusione non è questa. Tra la costituzione fisiopsicologica dell'uomo comune e dell'uomo d'ingegno, di un qualunque militare, per esempio, e di un buon condottiere, non è possibile che non vi sia differenza alcuna, nè di qualità, nè di quantità; si potrà tutt'al più concedere che la differenza sia soltanto di quantità; ma quella che passa tra un buon condottiere e Napoleone è senza fine maggiore, così profonda e radicale, che Napoleone, l'uomo di genio, pare veramente d'un'altra tempra. Il concetto lombrosiano secondo il quale la diversità

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Argomenti: grande ammirazione,    spirito umano,    scrittore tedesco,    sostrato organico,    moderno linguaggio

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