Il colore del tempo di Federico De Roberto pagina 21

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dall'altra parte, se non si credesse così, se non si nutrisse questa speranza, se tutti fossimo convinti che tutto è ineluttabile, che cosa faremmo?… DUE CIVILTÀ Fino a pochi anni addietro, quando i sociologhi in vena di profezia si proponevano la quistione della fine della nostra civiltà,—giacchè le civiltà fioriscono e finiscono come tutte le altre cose di questo mondo,—i sociologhi, dico, pensavano che la civiltà nostra soccomberebbe per opera di una nuova grande invasione barbarica, e vedevano nei Cinesi il nemico formidabile. Innumerevoli, le orde dei Gialli caudati si sarebbero rovesciate dai vergini altipiani asiatici sui vecchi paesi europei, ed avrebbero tutto abbattuto e travolto. In pochissimo tempo non solamente l'ipotesi si è dimostrata fallace, ma il fatto contrario, l'invasione europea in Cina, ha cominciato ad avverarsi. Comunque, le due razze stanno per venire in urto: il caso è degno d'esser considerato. I. Gli uomini vogliono e debbono intendersi; ma non vi riescono facilmente, alla prima. La Cina è un paese tanto diverso dal nostro, e di accesso così difficile, che i libri dei viaggiatori europei non ne danno un'idea adeguata. Posto anche che l'accesso fosse agevole, e la diversità non troppo grande, saremmo noi buoni giudici in casa altrui? Certo, se si trovasse un Cinese a cui la nostra civiltà fosse familiare, costui potrebbe meglio di ogni altro svelarci il suo paese. Questo Cinese si è trovato, ed è il colonnello Tcheng-ki-tong, addetto militare durante dieci anni all'ambasciata del Celeste Impero a Parigi. Disgraziatamente lo scrittore asiatico ci rassomiglia troppo, se non altro nella pretesa di mettere il naso nelle faccende altrui; perchè nel suo libro intitolato I Cinesi dipinti da loro stessi non tanto dipinge i suoi connazionali, quanto critica noi… «Il carattere essenziale della civiltà europea», dice egli, «è di essere invadente. Non ho bisogno di dimostrarlo. In altri tempi le orde dei barbari invadevano egualmente, non già per diffondere i benefizî d'uno spirito nuovo, ma per saccheggiare e rovinare gli Stati fiorenti. Gl'inciviliti seguono oggi la stessa via, ma presumono d'instaurare così il regno della felicità sulla terra. La violenza è il punto di partenza del progresso. Mi lusingo di poter credere che il metodo non è perfetto…». Gli daremo noi torto su questo punto? Avrà ragione la civiltà europea di imporsi con le cannonate? I suoi benefizî sono tanti da farle perdonare i mezzi cruenti? Leone Tolstoi risponderebbe subito no; Federico Nietzsche affermerebbe che il diritto del più forte basta a legittimare la lotta dei popoli progrediti contro i più deboli…. Certo il colonnello Tcheng-ki-tong ha ragione di dolersi perchè, dischiusi i porti cinesi ai commercianti europei, le prime cose che questi importarono furono le armi da fuoco. «Domandate a un Cinese come chiama gl'Inglesi; vi risponderà: mercanti d'oppio. Allo stesso modo vi risponderà dicendo che i Francesi sono missionarî. Egli non conosce altrimenti questi stranieri; e si capirà facilmente che ne serbi un ricordo indelebile, poichè i primi rovinano la sua salute a spese della sua borsa, e gli altri sconvolgono le sue idee. Io qui accerto soltanto il fatto; perchè può darsi, in fine dei conti, che l'oppio e le religioni nuove siano progressi straordinarî…». L'ironia del colonnello ha ben altri soggetti intorno ai quali esercitarsi. Che la civiltà della Cina sia antichissima ed originale, che questo popolo relegato in fondo al maggior continente, oltre i monti e oltre i mari, chiuso da una muraglia di sassi e da un'altra, più salda, di idee, di giudizî e di pregiudizî tutti suoi, sia pervenuto da solo, senza sussidio straniero, a un'altezza morale e a un ordinamento sociale degni di molto rispetto, non si può ragionevolmente negare. A chi lo considera come barbaro, sublimando invece le idee, le abitudini, i costumi nostri, il colonnello Tcheng-ki-tong dà pertanto qualche lezione molto sottile. «Gli esempî dei sacrifizî abbondano nella nostra storia nazionale. Così taluno si spoglierà del proprio vestito per darlo all'amico povero incontrato per via. Questo caso è molto frequente; ma i caritatevoli non sono da noi santificati come San Martino…». Fare il bene, in Europa, è cosa straordinaria e meravigliosa; in Cina assistere gli amici è un uso, non una virtù. «Io ho tentato di spiegare ai miei compaesani che cosa s'intende per matrimonio di convenienza; essi hanno sempre capito che fosse un atto di commercio, un affare…». Questa botta è tanto più felice, quanto che in Cina i matrimonî si fanno dalle famiglie, senza che gli sposi si conoscano prima del giorno delle nozze; ma tutto lo studio dei parenti è di sceglier bene, badando alle qualità morali, e non alle doti. E i matrimonî si fanno senza assistenza di autorità civili o religiose, solo dinanzi alle famiglie degli sposi, agli amici e a Dio,—quasi come vorrebbero i fautori dell'amore libero… E i vecchi celibi e le zitellone sono d'una rarità straordinaria; e c'è il divorzio, ma se la legge lo permette, l'uso lo biasima, e pochi, nei casi estremi, lo praticano. La moglie, in Europa, diventa minorenne, è posta sotto tutela, non può disporre neanche di ciò che le appartiene: in Cina può vendere e comprare, firmare effetti di commercio, accasare i figli, dar loro la dote che crede, e via discorrendo. Esiste laggiù, è vero, il concubinaggio, che agli Europei non parrà istituzione molto delicata; ma, in Europa, «col pretesto della delicatezza, si commettono delitti più grandi, quando i figli illegittimi sono buttati via…». Passiamo alle invenzioni, alle scoperte, che sono il vanto della civiltà occidentale. Molti e molti secoli prima di noi i Cinesi trovarono la polvere da sparo; ma se ne servirono per tirare fuochi d'artifizio, non già «per far saltare il mondo»; e trovarono anche la stampa, ma non la impiegarono «a corrompere gli spiriti e ad eccitare le passioni inutili». I Cinesi non hanno accettato le ferrovie, perchè non hanno giudicato necessario correre all'impazzata; ed anche perchè, lacerando esse la faccia della terra, passando sulle tombe, offenderebbero il sentimento di religioso rispetto che quel popolo nutre per i morti e gli antenati. «I nostri popoli non si sono dunque ancora decisi a lasciarsi invadere dal cavallo di fuoco; e veramente non si può farne loro una colpa, se si pensa che lo stesso Istituto di Francia rifiutò di ammettere la scoperta di Fulton, relativa all'adattamento del vapore alla locomozione delle navi. Essi meritano pure altrettanta indulgenza quanta i dotti dell'Accademia..». Noi non staremo a confutare il bravo colonnello; ma vedete che egli è a giorno delle nostre cose molto meglio che noi delle sue. Quando parla dei proverbî cinesi, concettosi e pratici, in gran parte simili agli europei,—giacchè l'uomo, chi ben guardi, è sempre e dovunque lo stesso,—egli dice che ve ne sono alcuni capaci di offendere le orecchie francesi, e soggiunge che non li ha tradotti non conoscendo abbastanza il latino da poterli travestire. «Ma forse un giorno mi deciderò a riparlarne, quando avrò letto Rabelais…». Tcheng-ki-tong ha trovato i massimi soggetti di stupore in società, nella buona società. Se un attore è invitato in un salotto parigino, ha il posto d'onore; i gentiluomini e gli accademici passano in seconda linea. «In Cina noi osserviamo un'etichetta rigorosa. Mi dicono che rispettarla, in Francia, non è ben fatto: lo credo…». E l'assalto dei buffets, nelle grandi feste ufficiali! Un Cinese che osservasse le cose d'Europa con la leggerezza degli Europei nel giudicare quelle cinesi, potrebbe scrivere nelle sue note di viaggio: «Le persone che compongono la classe più alta, quando sono in presenza del Capo dello Stato, non si mettono a tavola, ma vi si precipitano con furia guerresca…». In Cina le donne si riuniscono tra loro; gli uomini

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