Il colore del tempo di Federico De Roberto pagina 28

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consisterebbe in una anomalia, ha fautori convinti ed avversarî vivaci: certo è però che il Nordau, dopo averlo seguito, lo nega senza suggerirne uno più soddisfacente. II Ora, come si spiega il mutamento dello scrittore tedesco? Questa teoria lombrosiana ha suscitato, specialmente negli ultimi tempi, vivaci opposizioni; ma esse procedono da ragioni che non possono essere quelle del Nordau. Ha principalmente nociuto al concetto del Lombroso l'abuso che se n'è fatto. Molti studiosi che lo condividono, e lo stesso maestro che lo ha formulato, ne hanno cercato e addotto nuove prove; ma le prove, certune almeno, si sono ritorte contro di esso. Per esempio: Cesare Beccaria avrebbe patito di megalomania, perchè, come scrive il Verri, «quando è lodato è pazzo di vanità, ha dello spirito, è brillante. Fate che si cominci a trascurarlo, ch'egli per lo stesso principio vi abbandona e mette la coda in mezzo alle gambe come un bambino». Ma ciò accade non soltanto al Beccaria, sibbene a tutti i filosofi e ad ogni semplice mortale: la lode solletica e la trascuraggine umilia. È questo un sintomo patologico, o non piuttosto il giuoco naturale delle passioni, la legge eterna dell'umana natura? Il grado, l'intensità di questa reazione potrebbe dimostrarne la gravità, il carattere morboso; ma noi non possiamo misurare le reazioni avvenute in chi non è più, sulla fede di ciò che ne scrisse un amico, il quale per suo proprio conto obbediva alla stessa legge delle stesse passioni. La megalomania, da un'altra parte, pare che dovrebbe essere quella di chi ha un concetto di sè troppo grande e sproporzionato alle reali sue qualità; quindi il genio non potrebbe essere, per definizione, megalomane. E, per considerare un altro caso, tutte le volte che l'uomo si propone il problema metafisico, l'ignoranza e il dubbio lo inquietano e turbano: questo è un effetto naturale, non già follia. Tanto più che, dove manca il dubbio, dove si trova una fede cieca, la scuola antropologica vede un'altra follia, una monomania. In tutti questi casi, e negli altri simili, volendo trovare le prove morali della degenerazione e della pazzia, bisognerebbe procedere con somma prudenza; perchè i giudizî sui fatti morali sono molto difficili, e discutibili, e discussi; e perchè, adducendo tutte le passioni e tutti i sentimenti come altrettante prove di pazzia, si potrebbe estendere il giudizio e considerare, secondo ha fatto un certo grossolano buon senso, tutto quanto il mondo una gabbia di matti, e per conseguenza non trovare in nessun luogo l'uomo sano o, come si dice, normale. Quindi, lasciate da parte le prove mal sicure, bisognerebbe cercare le valide e innegabili; invece, l'accumulazione delle prove dubbie dà argomento di critica agli oppositori. Ma questa non può essere la ragione del mutamento del Nordau. Perchè, non solamente egli non s'inquieta dell'ambiguità delle prove; ma, al contrario, non ha proceduto, nella sua Degenerazione, se non per via di interpretazioni abusive, di esagerazioni arbitrarie, di deduzioni temerarie. Un'altra ragione per la quale l'affermazione della nevrosi del genio dispiace e suscita opposizione è relativa all'importanza pratica della nuova teoria. Vi sono molti che la condividono, che la credono ormai innegabilmente dimostrata. Ma questi, pure riconoscendo che l'insistenza dei suoi propugnatori è legittimata dagli attacchi degli avversarî, pensano che le prove dubbie possano essere accettate ed accumulate per eccesso di zelo, e ne domandano naturalmente il perchè. La verità è sempre amabile in sè stessa, anche quando non è feconda di conseguenze utili, di pratici adattamenti; ma naturalmente, umanamente, il maggior zelo si rivolge alla difesa delle verità utili; ora, quando si sarà dimostrato a tutti, e insegnato anche nelle scuole, che i genî sono alienati e degenerati, qual è la conseguenza pratica e dov'è l'utilità? Si metteranno al manicomio, o si sopprimeranno, come a Sparta i deboli e contraffatti? No, certamente. Si cureranno le malattie delle quali sono infermi? Neanche, se le malattie sono lo scotto e la condizione del genio, se sono lo stesso genio. Allora, che cosa si farà? Niente, o ben poco. I genî non saranno soltanto ammirati, ma anche compatiti; non soltanto lodati per la loro grandezza, ma anche biasimati per le debolezze e gli errori; la qual cosa, in verità, si è fatta sempre. Alcuni, tuttavia, combattono la teoria del Lombroso perchè temono precisamente che sia diretta, o possa portare a comprimere, a deprimere i sentimenti d'ammirazione che il genio eccita nella mediocre e infima umanità, e a scemarne l'importanza sociale. E ciò che dice, per esempio, il Roncoroni, potrebbe avvalorare il timore. Questo studioso, che il Lombroso cita a titolo di lode, afferma che il genio, il genio quale si è manifestato finora, «non è la più elevata espressione della specie. Infatti, in esso si trova un grande sviluppo di alcuni elementi psichici che, per quanto elevatissimi, non sono, per le necessità del consorzio civile, e conseguentemente per il progresso della specie, così necessarî come quegli elementi, filogeneticamente più evoluti, che in lui vediamo alterati». Ciò significa che la grandezza del genio è poco importante, è poco utile, mentre utilissime e importantissime sono le qualità che a lui mancano? La proposizione sarebbe innegabile se tutti i genî fossero grandi per un verso e deficienti per un altro; ma non pare che le cose stiano a questo modo; perchè noi vediamo, a cagion d'esempio, un genio grandissimo per i sentimenti egoisti, come Napoleone, e un altro grandissimo nel senso diametralmente opposto, come Francesco da Assisi; la stessa opposizione vediamo tra il genio filosofico del Nietzsche e quello del Tolstoi; vediamo ancora altri genî grandi per la forza della fede, ed altri per la forza del dubbio, e via discorrendo. E se le buone qualità sono scontate dalle cattive, se le qualità buone non sono buone del tutto, e viceversa, i benefici effetti del genio compenseranno i perniciosi; i genî non saranno considerati nè come indispensabili nè come inutili al procedere dell'umanità; e quella del compenso e dell'equilibrio parrà veramente una delle maggiori leggi al mondo. Ora, per tornare al Nordau, qui pare che sia propriamente l'origine del suo dissidio con la scuola italiana. Tutta la sua ipotesi dello sviluppo speciale di speciali centri nervosi tende a stabilire una gerarchia dei genî, e delle facoltà dalle quali dipendono, gerarchia in forza della quale la sensibilità e il sentimento sarebbero inferiori al raziocinio ed alla volontà. Le produzioni artistiche lo fanno sorridere perchè, derivando soltanto da una speciale potenza sensoria e sentimentale, eccitano commozioni, ma non suggeriscono pensieri. Volentieri egli ripeterebbe con un antico matematico al finire di una sinfonia: Qu'est-ce que cela prouve? Nulla, evidentemente: la Nona Sinfonia non prova nulla, ma il Binomio di Newton non fa nulla provare. Tuttavia tale distinzione non dev'essere tanto radicale, se è vero ciò che alcuni matematici moderni vengono affermando e che il visconte d'Adhémar ha ultimamente esposto in uno studio pubblicato nella Revue des deux mondes. Questi matematici, adunque, sostengono che con i loro lavori non pensano tanto di raggiungere certi risultati positivi, quanto di procurarsi una commozione estetica; e la geometria e l'algebra e tutte le scienze esatte non sarebbero soltanto fonti di un godimento artistico, ma anche supreme forme dell'arte. Se questo agguagliamento della scienza all'arte si deve giudicare effetto di una esagerazione, non meno esagerato in senso contrario è il concetto del Nordau, secondo il quale fra arte e scienza c'è un abisso, e tutto il credito è da accordare alla scienza e l'arte ha un valore infimo. Un pianista come Listz è per lui altrettanto geniale quanto un perfetto ballerino: in entrambi l'eccellenza dipende dallo sviluppo dei

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