Corbaccio di Giovanni Boccaccio pagina 2

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operando, s'ingegna di darti dolente vita e cagione di desiderare la morte, così tu, vivendo, trista la fa' della tua vita”. Maravigliosa cosa è quella della divina consolazione nelle mente de' mortali: questo pensiero, sì com'io arbitro, dal piissimo Padre de' lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscurità levatami, in tanto la vista di quelli, aguzati, rendé chiara che, a me stesso manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente, riguardandolo, me ne vergognai, ma, da compunzione debita mosso, ne lagrimai e me medesimo biasimai forte e da meno ch'io non arbitrava mi reputai. Ma, rasciutte dal viso le misere e le pietose lagrime e confortatomi a dovere la solitaria dimoranza lasciare, la quale per certo offende molto ciascuno il quale della mente è men che sano, della mia camera con faccia assai, secondo la malvagia disposizione trapassata, serena usci'. E, cercando, trovai compagnia assai utile alle mie passioni: colla quale ritrovandomi e in dilettevole parte ricolti secondo la nostra antica usanza, primieramente cominciamo a ragionare con ordine assai discreto delle volubili operazioni della Fortuna, della scioccheza di coloro i quali quella con tutto il desiderio abracciano, e della pazia d'essi medesimi i quali, sì come in cosa stabile, le loro speranze messe fermano. E di quinci alle perpetue cose della natura venimo e al maraviglioso ordine e laudevole di quelle, tanto meno da tutti con ammirazione riguardate quanto più tra noi, senza considerarle, le veggiamo usitate. E da queste passamo alle divine, delle quali appena le particelle estreme si possono da' più sublimi ingegni comprendere, tanto d'eccellenzia trapassano l'intelletti de' mortali. E intorno a così alti e così eccelsi e così nobili ragionamenti il rimanente di quel dì consumamo; da' quali la sopravegnente notte ci costrinse a rimanere a quella volta: e, quasi da divino cibo pasciuto, levatomi e ogni mia passata noia avendo cacciata e quasi dimenticata, consolato alla mia usitata camera mi redussi. E poi che lo usitato cibo assai sobriamente ebbi preso, non potendo la dolceza de' passati ragionamenti dimenticare, grandissima parte di quella notte non senza incomparabile piacere, tutti meco repetendoli, trapassai; e, dopo lungo andare, vincendo la naturale oportunità il mio piacere, soavemente m'adormentai; e con tanta più forza si mise ne' miei sentimenti il sonno, quanto più gli avea il dolce pensiere trapassato di tempo tolto. Per che essendo io in altissimo sonno legato, non parendo alla mia nimica fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel mio vegghiare, ancora dormendo s'ingegnò di noiarmi; e davanti alla virtù fantastica, la quale il sonno non lega, diverse forme paratemi, avvenne che a me subitamente parve intrare in uno dilettevole e bello sentiero, tanto agli occhi miei e a ciascun altro mio senso piacevole quanto fosse alcun'altra cosa stata davanti da me veduta. Il luogo, dove questo si fosse, non: mi parea conoscere; né di conoscerlo mi parea curare, poscia che dilettevole il sentia. Et è il vero che, quanto più avanti per esso andava, tanto più parea che di piacere mi porgesse, per che da quello si fermò una speranza la quale mi promettea che, se io al fine del sentiero pervenissi, letizia inestimabile e mai da me non sentita mi si apparechiava. Onde pareva che in me s'accendesse un disio sì fervente di pervenire a quello, che non solamente i miei piedi si moveano a correre per pervenirvi, ma mi parea che mi fossero da non usitata natura prestate velocissime ali; colle quali mentre a me parea più rattamente volare, mi parve il cammino cambiare qualità; e, dove erbe verdi e varii fiori nella entrata m'erano paruti vedere, ora sassi, ortiche e triboli e cardi e simili cose mi parea trovare; sanza che, indietro volgendomi, seguir mi vidi a una nebbia sì folta e sì oscura quanto niuna se ne vedesse già mai; la quale subitamente intorniatomi, non solamente il mio valore impedìo, ma quasi d'ogni speranza del promesso bene allo 'ntrare del camino mi fece cadere. E così quivi immobile e sospeso trovandomi, mi parve per lungo spazio dimorare avanti che io, pure atorno guardandomi, potessi conoscere dov'io fossi. Ma pure, dopo lungo spazio assotigliatasi la nebbia, come che 'l cielo per la sopravenuta notte oscurato fosse, conobbi me dal mio volato essere stato lasciato in una solitudine diserta, aspra e fiera, piena di salvatiche piante, di pruni e di bronchi, senza sentieri o via alcuna, e intorniata di montagne asprissime e sì alte che colla loro sommità pareva toccassono il cielo. Né per guardare con gli occhi corporali né per estimazione della mente in guisa alcuna mi pareva dovere comprendere né conoscere da qual parte io mi fossi in quello entrato; né ancora – che più mi spaventava – poteva discernere dond'io di quindi potessi uscire e in più dimestichi luoghi tornarmi. Et oltre a questo mi parea per tutto, dove che io mi volgessi, sentire mughi, urli e strida <di> diversi e ferocissimi animali: de' quali la qualità del luogo mi dava assai certa testimonianza che per tutto ne dovesse essere. Laonde e dolore e paura parimente mi venne nell'animo: il dolore agli occhi miei recava continue lacrime, e sospiri e ramarrichii alla bocca. La paura m'impediva di prendere partito verso quale di quelle montagne io dovessi prendere il cammino per partirmi di quella valle, ciascuna parte mostrandomi piena di più forti nimici della mia vita: laond'io, arrestato nella guisa che mostrato è, e da ogni consiglio e aiuto abandonato, quasi niun'altra cosa che la morte o da fame o da crudel bestia aspettando, fra gli aspri sterpi e le rigide piante piangendo mi parea dimorare; niun'altra cosa faccendo che tacitamente o dolermi dell'entrata sanza prevedere dov'io pervenire mi dovessi, o chiamare il soccorso di Dio. E, mentre che io in cotal guisa e già quasi da ogni speranza abandonato, tutto delle mie lagrime molle mi stava, et ecco, di verso quella parte dalla quale nella misera valle il sole si levava, venire verso me con lento passo uno uomo senza alcuna compagnia; il quale, per quello ch'io poi più dappresso discernessi, era di statura grande e di pelle e di pelo bruno, benché in parte bianco divenuto fosse per gli anni, de' quali forse sessanta o più dimostrava d'avere; e il suo vestimento era lunghissimo e largo e di colore vermiglio, come che assai più vivo mi paresse – non ostante che tenebroso fosse il luogo dov'io era – che quello che qua tingono i nostri maestri. Il quale, come detto è, con lenti passi approssimandosi a me, in parte mi porse paura e in parte mi recò speranza: paura mi porse, per ciò ch'io cominciai a temere non quello luogo a lui fosse per propia possessione assegnato e, recandosi ad ingiuria di vedervi alcuno altro, le fiere del luogo, sì come a lui familiari, a vendicare la sua ingiuria sopra me incitasse e a queste mi facesse dilacerare; speranza d'alcuna salute mi recò, in quanto più faccendosi a me vicino, pieno di mansuetudine mel parea vedere; e più e più riguardandolo, estimando d'altra volta, non quivi ma in altra parte, averlo veduto, diceva meco: “Questi per aventura, sì come uomo uso in queste contrade, mi mostrerrà dove sia di questo luogo l'uscita; e ancora, se in lui fia spirito di pietà alcuno, infino a quello benignamente mi menerà”. E, mentre che io in così fatto pensiere dimorava, esso, senza ancora dire alcuna cosa, tanto mi s'era avicinato che io, ottimamente la sua effigie raccolta, chi egli fosse e dove veduto l'avessi mi ricordai; né d'altro colla mia memoria disputava che del suo nome, imaginando se io per quello, misericordia e aiuto chiedendoli, il nominassi, quasi una più stretta familiarità per quello dimostrando, con maggiore e più forte affezione a' miei bisogni il dovesse muovere. Ma, mentre che io quello, che cercando andava, ritrovar non poteva, esso, me con voce assai soave per lo mio propio nome chiamandomi, disse: – Qual

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Argomenti: lungo spazio,    divino cibo,    usitato cibo,    altissimo sonno,    senso piacevole

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