Fior di passione di Matilde Serao pagina 25

Testo di pubblico dominio

ripeto con lui: Noi non sappiamo nulla. Rimaniamo silenziosi, pensosi nello sconfinato dubbio di due anime inaridite... Di nuovo il silenzio si fece. Niuno non lo interruppe più. Nell'ambiente caldo e bruno, si calmavano gli echi dei tre amori, così profondamente diversi fra loro. Eppure era lo stesso uomo che le amava tutt'e tre. Un Inventore. --Ebbene, Ulrich, non mi rispondi?--chiese Lottchen, molto indispettita. Egli stava ritto presso la finestruola archiacuta, dai vetri impiombati, guardando fisso nella viottola. Nell'ombra della sera che cresceva, il suo duro ed energico profilo teutonico si addolciva; e il corpo alto si curvava, quasi preso dalla stanchezza. --Ulrich, tu non mi ascolti--ripetè Lottchen, con una certa tristezza nella voce. Egli si volse, e sulle sue labbra spuntò un sorriso debole ed indeciso. Lo sguardo gli vagò incerto per la stanzetta, come se la mente lo mandasse in traccia di un pensiero smarrito. --A che pensavi tu dunque, mentre io ti parlava? --A nulla, Lottchen--disse finalmente lui, con la sua voce grave e sonora. --Sempre così, sempre così, Ulrich. Tu mi ami molto meno delle tue sciocche fantasie. Ulrich chinò il capo, e parve che attorno maggiormente gli si addensasse l'ombra. Mentre Lottchen continuava a tormentarlo ed a tormentarsi, ricominciando per la centesima volta le sue recriminazioni, egli non osò risponderle parola. La fanciulla si chinava verso di lui per vederne il volto, ma si ritraeva scontenta: sulla faccia di Ulrich non si vedeva alcuna impressione. Solo un lieve tremolío gli agitava le dita. Infine la bionda Lottchen si tacque, stringendosi nelle spalle, come se dicesse che tutto, tutto era inutile; ed i due fidanzati stettero per tanto tempo in quel silenzio penoso, pieno di pensieri dolorosi. Ad un tratto, mentre una fantesca posava un lume monumentale sopra la tavola, una voce infantile gridò di fuori: --Zio Ulrich! zio Ulrich! Ed un bambino entrò correndo nella stanza, cercando d'arrampicarsi sulle ginocchia del giovanotto. Quando ebbe conquistato quel posto, col tono lento e carezzevole dei bambini, gli domandò: --Me lo fai un giocattolo, zio Ulrich? Ulrich impallidì, arrossì e posò una mano sul capo del bimbo. --Te lo farò, Hans. --Bello? --Bello. --Un giocattolo che avrò io solo, io solo? --Tu solo. --Uno di quei giocattoli belli belli che tu solo sai fare? --Sicuro, uno di quei giocattoli belli che io solo so fare. Ulrich per la prima volta sorrise d'orgoglio: ma fu anche una lagrima di orgoglio offeso quella che Lottchen celò andando in un'altra stanza. Il bimbo rideva e stringeva le mani, quasi che possedesse già il prezioso giocattolo. Perchè, pochi lo sanno e nessuno ci pensa, ma è una piccola città di Germania quella che fa contenti tutti i bambini dell'Europa. Da Nuremberg, la città gotica, dall'architettura fantastica e bizzarra, dalle torricelle merlate e dalle case di legno, dalla piccola Nuremberg partono i tesori che destano il riso sulle labbra infantili: le bambole dal roseo viso di cera, dagli occhi azzurri senza pensiero, dai capelli biondi come la stoppa; i fantoccetti vestiti da zuavo, da Arlecchino, da Rigoletto; le armi miracolose, le trombettine di stagno dal suono stridulo; le scatole donde vengono fuori le casettine microscopiche che puzzano di vernice fresca, gli alberetti fatti con un bastoncello ed un fiocchetto di trucioli tinti di verde, i piccoli appartamenti, le piccole cucine, i piccoli animali, i piccoli soldati ed infine tutto il mondo minuscolo, la vita microscopica che prepara il bimbo alla vita vera. In Nuremberg, città della gioia e della tranquillità, dove gli innocenti operai delle fabbriche di giocattoli sorridono nella consolazione di una coscienza soddisfatta; in Nuremberg dovrebbero andare in gaio pellegrinaggio tutti i bambini, accompagnati dalle madri giovanette, processione fulgida e meravigliosa. Ma dovrebbero salutare con le grida d'allegria la casa di Ulrich, il grande ed ignoto artista, il grande ed umile inventore. Ulrich era stato un bimbo infelice nella casa di una dura matrigna. Sapeva quante lagrime segrete si possono versare in una notte, come possano soffocarsi mordendo il lenzuolo; aveva conosciuto la monotonia delle lunghe ore, passate in un angolo oscuro, sopra una seggiolina, con le mani in grembo. Non aveva giocattoli e ne vedeva dappertutto e ci pensava spesso, e li desiderava tacitamente e li chiamava nel suo cuore. Chiudendo gli occhi, li rivedeva nella sua mente e li scomponeva, li ricomponeva, cercava loro una forma nova. Passando dinanzi ad una fabbrica, guardava, timido, per la porta socchiusa. Stare là dentro sarebbe stata per lui una felicità. Quelle bacchinucce, quei pennelli, quegli strumentini, quei lembi di stoffa, quei pezzetti di legno, lo seducevano, lo affascinavano. La notte li sognava. E anche di giorno egli era un sognatore, perduto nella contemplazione del suo fantasma. Egli vedeva nella sua immaginazione nuovi congegni, combinazioni strane ed audaci; e fuori egli rimaneva un pallido e debole adolescente, dalle labbra smorte, dallo sguardo errante, troppo alto, troppo magro, talvolta abbattuto ed inerte, talvolta arse le guancie dalla febbre dell'idea. Quando entrò come operaio nella fabbrica, credè di essere diventato un re; ma soffrì profondamente, perchè il lavoro usciva dalle sue mani rozzo e incompiuto. Egli piangeva di rabbia per quelle spaventose difficoltà manuali, ed avrebbe voluto mordere le dita incapaci di tradurre in atto le sue fervide creazioni. Si castigò, condannandosi, lui che aveva un mondo nel cervello, a lavorare di copia, a seguire i modelli antichi. Visse un altro anno in desiderio raddoppiato, ardente, contenuto; si consolava passeggiando sulla piazza e guardando i bambini che s'inseguivano. Provava una grande tenerezza che gli faceva venire le lagrime agli occhi. In fondo era rimasto anche lui un bambino, col cuore buono ed appassionato. Così, a poco a poco, egli dominava e vinceva la materia, e le sue dita diventavano esperte e leggiere, affinando la loro sensibilità, ed egli potè metter fuori il lavoro utile, le idee nuove che s'erano chiuse come fiori al caldo della sua fantasia. Tutto consisteva nel dare una parte d'anima ai giocattoli, nell'imprimer loro un soffio di vita: fu lui che inventò la bambola, la quale, coricata, chiude gli occhietti, quella che dice papà, mammà, quella che saluta col capo, quella che nuota come una ranocchia. Subito il direttore della fabbrica gli assegnò una stanzetta solitaria, dove potesse lavorare tranquillamente ai modelli che gli altri operai dovevano riprodurre. Da quella stanzetta uscivano tutte le piccole meraviglie che sono la consolazione dell'infanzia. Il sorcio volante che si precipita per due trampoli di legno; il ginnasta che sale per una scaletta con l'agilità di uno scoiattolo e si slancia dall'altra parte, per ricominciare ogni momento il suo gioco; il coniglio accovacciato che suona il timpano, abbassa la testa e si frega il muso con le bacchette; il violinista vestito da marquis, in raso ed oro, che nel medesimo tempo suona il violino e balla un passo di gavotta; le oche, le anitre, le navicelle galleggianti attirate alla sponda da un pezzetto di calamita; i cavallini galoppanti, le carrozzette semoventi; tutto questo usciva dalle mani fatate di Ulrich. La sua ispirazione non si fiaccava mai: talvolta egli si stringeva la testa calda fra le mani gelate, per timore gli scoppiasse, tante idee battevano contro le pareti del cervello per uscire; correva di notte, nella campagna, facendosi soffiare il vento aquilonare sul volto. Quando cominciava il lavorío interno per qualche cosa di nuovo, egli si concentrava profondamente e nulla valeva a distrarlo: nè la voce di Bertha sua sorella, nè quella di Lottchen, la fidanzata che egli amava nei suoi momenti di libertà. L'arte ha questi feroci egoismi. Finalmente l'opera veniva alla luce, dopo tre o quattro giorni, tre o quattro notti passate nel

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Argomenti: tanto tempo,    medesimo tempo,    voce infantile,    corpo alto,    cuore buono

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