Fior di passione di Matilde Serao pagina 21

Testo di pubblico dominio

per decidersi ad una ritirata. Poi, poco a poco, vedendola più spesso, avendo colpito certi momenti rivelatori, egli si persuase che Adriana poteva amare, avrebbe amato quando avesse compreso che cosa fosse l'amore, quando l'animo di lei fosse stato educato al sentimento, quando ella avesse vissuto accanto all'amore. Egli formò il bel progetto di questa educazione, di questa rigenerazione, col coraggio entusiasta di chi crede dover compiere una missione. L'ozio elegante della sua vita era finito, egli aveva trovato come riempire di azione la sua giornata e di sogni la sua nottata. Bene spesso, come la sua natura sarcastica prendeva il di sopra, egli si burlava lungamente di un paladino, di un cavaliere errante che rispondeva al nome di Annibale Massenzio. Eppure, malgrado le ironie ed i frizzi di cui era prodigo con sè stesso, la sua corte alla duchessa diventava più assidua, più completa, più aperta. Col pretesto di educarla all'amore, egli le mandava i fiori ogni mattina, andava a trovarla ogni giorno alle due, la rivedeva alle cinque alla passeggiata, le scriveva un bigliettino dopo pranzo, la ritrovava ogni sera al teatro, al ballo, al concerto, alle riunioni famigliari. La gente cominciava a compatirlo. Ma non glielo dicevano ancora, credendo che la cosa sarebbe finita lì per lì. Invece la cosa durava: ad una corte accanita Adriana opponeva una resistenza vivace, quasi che si fosse formato un perfetto piano di difesa. Qualche debole e meschina concessione, uno sguardo più languido, una intonazione di voce più amabile, una mano più abbandonata, confortavano per un istante Annibale, ma duravano anche un istante. In realtà, egli finiva per disperarsi; in realtà, aveva finito lui per innamorarsi come tutti quelli che fingono troppo d'amare. Scriveva ad Adriana certe lettere riboccanti di passione per cercare di scuotere quel cuore immobile: e ne riceveva in cambio una frase cortese, una parolina di gentilezza, un sorriso che lo calmavano per breve tempo. Quando stavano insieme era una lotta continua in cui l'eloquenza dell'amor vero infiammava le parole di Annibale, in cui la passione lo rendeva più bello, più seducente: una lotta in cui Adriana combatteva strenuamente negando sempre, ricorrendo a tutte le sottigliezze della dialettica, con quell'arte infinita dei paradossi e degli assiomi che le donne variono all'infinito. Da queste lotte Annibale usciva estenuato, disfatto, con la testa perduta, ogni giorno volendo fuggire, ogni giorno rimanendo; ma Adriana era anch'essa ogni giorno più debole, più sgomenta. L'amore di Annibale la martellava ad ogni ora sul cuore per entrare: i fiori la illanguidivano, le lettere la intenerivano, le parole calorose, gli atti di disperazione la scuotevano; voleva irrigidirsi contro queste impressioni, ma non vi riusciva. Per eccesso opposto diventava crudele con Annibale che, innamorato come era, non sapeva, non poteva accorgersi dei suoi vantaggi. Ella s'inferociva contro lui, lo scacciava dalla sua presenza e, quando rimaneva sola, piangeva. Annibale nulla sapeva di queste lagrime. Adriana viveva in un'atmosfera di amore, era impregnata d'amore, satura d'amore, sognando ad occhi aperti tutte le sue dolcezze, comprendendo il trionfo del sentimento; ed Annibale, vedendola più fiera, più rude, più cattiva, si convinceva della infelicità della sua passione. Stette un giorno senza vederla, ma passò la notte a passeggiare per la riviera di Chiaia; non le scrisse per due giorni, ma quattro lettere lunghissime furono lacerate. Poi si ritirò per una settimana in una sua villa a Capodimonte... --Se ha anche un'ombra di affezione per me, mi scriverà un biglietto--pensava l'innamorato, desolandosi nel suo eremitaggio. Per quattro giorni la duchessa Adriana resistette a non aver notizie di Annibale. Ma si sentiva vinta e non cercava che di prorogare il momento in cui la prima parola di amore sarebbe uscita dalle sue labbra. Annibale non veniva, la casa le pareva deserta. Si annoiò mortalmente al teatro. Una mattina entrò in chiesa, cercando rifugiarsi nel misticismo, ma, dopo una convulsione nervosa, si trovò l'animo più afflitto di prima. A casa, nella sua camera, pianse due volte. Desiderò di morire, vestita di raso bianco, coi capelli disciolti, coperta di fiori. Rimpianse di non essersi fatta monaca. Vagava nei suoi appartamenti come un'anima in pena. Una tenerezza grave le saliva dal cuore alle labbra. Finalmente una sera si decise. Stanotte, a mezzanotte, scriverò un biglietto ad Annibale, lo avrà domattina: fu la sua risoluzione. Mentre stava distesa sulla poltroncina, presa da un grande abbattimento, le annunziarono il conte Giorgio Filomarino. --Benvenuto, mi distrarrà--pensò lei. Il conte Filomarino era tornato in casa Castroreale da poco tempo. La duchessa aveva voluto benignamente dimenticare la dichiarazione di una volta, tanto più che il conte ritornava come amico, senza farle punto la corte. Dicevano anzi che fosse occupato altrove: anzi il conte sorrideva, ritrovando Annibale presso la duchessa. Era innocuo dunque. Quella sera egli si fermò un istante sulla soglia, osservando quella mezza luce insolita, quelle poltroncine sbandate, quei libri aperti e buttati via, quei fiori che appassivano, gli occhi della duchessa nuotanti in un velo di lagrime. La conversazione si annodò lenta, a voce bassa. Ogni tanto Adriana si passava una mano sulla fronte, quasi volesse diradarne i pensieri. Parlavano di cose semplici, temi usuali della conversazione. Ma due o tre volte Giorgio Filomarino fissò il suo sguardo dominatore sopra Adriana e la vide impallidire. Due o tre volte la voce di Adriana tremò in una insolita vibrazione. Senza accorgersene arrivarono sul terreno del sentimento; e allora Giorgio fu tenero, delicato, imperioso, malinconico, ironico, scettico, appassionato, parlando a meraviglia di amore, con la voce, con gli occhi, con l'espressione del volto. Egli colorì la sua parola, rese brillante e profonda ogni sua idea. Adriana lo stava a udire, socchiudendo gli occhi, mentre un'onda di sangue saliva a rianimarle le guancie smorte. Quella sera, con una intuizione rapidissima, egli indovinò tutto, egli seppe essere tutto, tutto quello che desiderava Adriana. E quando la vide sconvolta, l'occhio smarrito, la bocca fremente, vinta dall'affetto, dalla tenerezza, dall'amore, egli osò dirle ad alta voce, audacemente, che l'amava. Fu così che Adriana di Castroreale s'innamorò perdutamente di Giorgio Filomarino. Fu questa la vittoria di Annibale. Falso in Scrittura. Trovò nel prezioso cassettino di ebano, tutto odoroso di profumi antichi, tutto pieno di morticini sotto la forma di un braccialetto, di un ditale, di un frammento di marmo, di un brandello di merletto, di una perla smarrita, queste tre lettere che formano un morto solo che furono un sol lutto. 12 Maggio... Egregio signor Cesare--La sua lettera m'ha fatto male. Passai tutta la notte a interrogare la mia coscienza di donna onesta, per sapere che atto, quale parola mia le abbiano permesso scrivermi quel che m'ha scritto. Ella m'ama, signor Cesare, e vuole essere amato da me--da me donna vincolata, malamente sì, ma vincolata. Quale idea ha ella della donna, della virtù, dell'onestà? E in quale pessimo ambiente femminile ha vissuto per creder pessime tutte le donne? E di sua madre, che fu sicuramente una santa donna, se ne ricorda? Mi perdoni la vivacità di queste parole. Fui offesa e se prendessi consiglio soltanto dalla dignità, non le risponderei neppure. Ma la bontà rende mite il mio cuore. Che io mi sappia, nel dolore così forte che lei mi descrive con tanta sincerità di parole, io non ho colpa. Le usai quelle oneste preferenze che si debbono a giovane intelligente e colto; m'intrattenni con lei in quei piacevoli e sereni discorsi che elevano o purificano l'anima, resa troppo volgare dalle materialità della vita; accolsi le manifestazioni della sua stima, le ricambiai con quelle della mia. Tutto era

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Argomenti: coraggio entusiasta,    resa troppo

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