Fior di passione di Matilde Serao pagina 9

Testo di pubblico dominio

porta: ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna. --Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti--mormorò il disertore. --Andiamo su--fece lei. Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava. --Sentite--disse donna Cariclea.--Io ho svegliato Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto. Voi scenderete per quella scala: siete forte, mi pare? --Fortissimo. --Bene. Andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli. Egli eseguì senz'esitare. --Bene. Anderete a passar il Garigliano verso Sora; è lontano, ci arriverete in due giorni: a Sora ci è la scafa, passerete il fiume. Di là siete al confine pontificio. Peppino vi lascerà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore. --Addio, signora. E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla. --No--fece la madre opponendosi. Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone: udì lo scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante: udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei. --Pensa che questo sia un sogno, Caterina: dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.
............................................ Ma Caterina non ha potuto dimenticare. Delfina. Sotto la luce concentrata della lampada, la zia Angiolina leggeva: ogni tanto s'interrompeva, scambiava qualche parola con Cecilia e ripigliava la lettura. La stanza rimaneva quasi tutta nell'ombra; non un soffio d'aria entrava dalla finestra aperta, il luglio portava queste serate soffocanti. Sull'ampia tavola, coperta da un tappeto verde, stavano mucchi di biancheria, pile cascanti da tutte le parti, per soverchia altezza. Un grande armadio, in fondo alla parete, era spalancato--nella penombra, appena appena si distinguevano gli scaffali quasi vuoti. Presso la tavola, un cassone largo ed alto, di legno chiaro, col coperchio sollevato, foderato di tela gialla, inghiottiva la biancheria che Cecilia vi riponeva, togliendola dall'armadio, dalla tavola, dalle sedie dove era sparsa. Cecilia andava e veniva, prestamente, svelta sui tacchettini minuti, uscendo, ritornando, senza fermarsi mai. --Ti stanchi?--chiese zia Angiolina, presa da un rimorso, lasciando il suo romanzo. --No, no. --Neppure io mi stancava.... allora....--mormorò la zia, con la sua posa malinconica e la voce strascicata che usava quando parlava di altri tempi. --O allora, allora, zia, come dovevate essere allegra! --Allegra... molto. Facevo un matrimonio d'amore. --Ed io?--esclamò, ridendo, Cecilia--faccio io un matrimonio diplomatico forse? Sono forse la principessa di Schwarzenbourg-Augustenbourg che sposa, senza conoscerlo, il principe di Assia-Darmstadt? Rideva. La boccuccia rotonda, che difficilmente poteva star chiusa, col labbruccio superiore che si sollevava, era molto bellina nel riso. Ma ella guardò di sbieco verso un balcone che rimaneva nell'ombra, appena un'occhiatina e tacque, come se fosse colta da un pensiero. Ora piazzava le sottane nel cassone, inginocchiata dinanzi ad esso, piegando le sottane in due, disponendone accuratamente le pieghe perchè le balze riccie, i ricami, le trine onde erano guarniti non si sciupassero. Si fermò d'un tratto, sempre inginocchiata, coi due gomiti appoggiati sull'orlo del cassone, la testa fra le pugna chiuse. --Zia, non abbiamo pensato ad una cosa molto seria. Io ho moltissime sottane corte, non ne ho che sei lunghe; di lunghissime nessuna; e sotto l'abito di broccato rosso che metterò? Se debbo andare ad un ballo, che metterò? --Infatti... Dio mio, non si penserebbe mai a tutto in questi corredi! Come si fa ora? Zia e nipote si guardavano, preoccupate, inquiete. --Se rimettessimo a quest'altra settimana il matrimonio? --No!--gridò Cecilia, balzando in piedi.--Penso che quest'anno non ballerò, poichè passeremo l'inverno in campagna. Cesare è stanco dei balli; io quindi ne sono stanca... --Pare un romanzo, Cecilia. --Siete sempre coi vostri libri, zia. Vi guastate la vita. Vedete, io non ne leggo mai e trovo molto naturale che Cesare mi sposi... Chinò il capo di nuovo e si mise a disporre le calze nel cassone, uno strato fitto e multicolore su cui il bianco dominava. --Ci metto dello spigonardo, zia?--domandò Cecilia che non poteva tacere.--Lo spigonardo, dicono, conserva la seta dai tarli. --Sì, ma è un profumo volgare, Cecilia. Metti dell'ireos. Tu dovresti avere dell'ireos. --Vado a vedere. E scappò fuori. Zia Angiolina guardò anch'essa alla sfuggita, verso il balcone. Nel vano oscuro un'ala nera si agitava nervosamente; era un grande ventaglio. Zia Angiolina sospirò, osservò accuratamente le sue mani che aveva conservate morbide e bianche, le trovò di sua soddisfazione, stette lì lì per dire qualche cosa al ventaglio nervoso, ma se ne pentì e non disse nulla. Cecilia ritornò; era tutta rossa. Portava un grande cespo di rose gialle e certi lunghi rami di gelsomini bianchi rampicanti. Ogni tanto succhiava vivamente l'indice della sinistra che si era dovuta pungere ad una spina. --Non ho trovato l'ireos,--dichiarò,--sono uscita nel balcone dell'anticamera ed ho spogliato la rosa-tea che era tutta fiorita. Anche i gelsomini erano fioriti, ho strappato un po' i rami, ma che importa? Rinasceranno. --Che ne farai, di questi fiori? --Li sfoglierò nel cassone. È buono l'odore dei fiori secchi. Peccato, dovrei avere le gaggie. Hanno un profumo squisito nella biancheria. Si pose a sfogliare le rose, lasciandone cadere i petali nella cassa, come una pioggia delicata; buttò via gli steli nudi e verdi. Poi sfogliò i gelsomini che le cadevano fra le dita, lievi ed olezzanti. Rimase a guardare l'opera sua, tutta sorridente. Zia Angiolina crollava il capo con la sua grand'aria sentimentale. Che faceva il ventaglio nero, laggiù, nell'oscurità? Si era chiuso, con una discesa secca come una risata sardonica. Cecilia, quasi fosse stata sorpresa in una contemplazione poetica e puerile, arrossì. Stette immobile, lo sguardo vagante, distratta, cercando qualche cosa da fare o da dire. Poi si dette di nuovo all'opera sua. --Cesare, Cecilia, non vanno bene insieme?--mormorava. --Vi è una fatalità nei nomi--rispose gravemente la zia. --Ancor questa fatalità. La mettete dappertutto, zia. Mi rattrista, ve lo assicuro. Ascoltate, zia: ho da domandarvi due cose gravissime, di una importanza eccezionale. Credete voi, zia, che quando non avremo nessuno a pranzo, io posso scendere in veste da camera ed in pianelle? Credete voi che Cesare sia innamorato di me? --Debbo rispondere alla prima o alla seconda domanda? --Sono egualmente interessanti, ma via, rispondete alla seconda. --È cosa triviale citare un proverbio, ma questo qui l'ho fatto io. Chi ama bene, sposa presto. Da quanto tempo conosci Cesare? --Da un anno; da sei mesi mi fa la corte, da tre mesi è mio fidanzato. --Secondo i calcoli matematici, Cesare è innamorato di te. --N'ero convinta avanti di chiedervelo, zia. Era così innamorato di voi, lo zio Astolfo? --O cara! Lo zio Astolfo era molto diversamente innamorato. Allora si amava in un altro modo. Ci amammo per quattro anni contro la volontà dei nostri parenti, tre volte progettammo di morire, e tutto era pronto per un rapimento, quando

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Argomenti: due passi,    broccato rosso,    galoppo furioso,    cassone largo,    matrimonio diplomatico

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