Fior di passione di Matilde Serao pagina 15

Testo di pubblico dominio

comprendendo la malvagia idea--malgrado il susurrìo di compassione che susciterei nella vostra famosa platea, contessa. Sono sicuro, vedete--e la sua voce tremolò di collera--che mi si compiange. Ella non rispose nulla. Dopo una pausa, gli domandò: --Foste al ballo in casa Della Mana? --... ci fui. --Mi attendeste inutilmente?--riprese, scherzando graziosamente col ventaglio. --Inutilmente. --Mandai a dire che ero ammalata. Vi impensieriste? Non era vero. Il mio abito, giunto da Parigi, era un capolavoro di bruttezza. --Questo di stasera è odioso. --Vi pare? Eppure voi dovreste preferire questi fiori dai colori passionati. Non andate predicando da per tutto: Amore, amore, passione, passione? --Ma non artificiale come i vostri fiori, contessa, come il falso colore dei vostri nastri, come la falsa Turchia del vostro ventaglio, come voi stessa... --Eh!--fece lei, rivoltandosi vivamente. --Perdono. Ho sbagliato... ho la testa un po' confusa. Qui vi è un profumo penetrante che mi dà ai nervi. --Ora va bene--approvò lei col capo, agitando lievemente il ventaglio. --Ho sbagliato, vi ho offesa. Voi non siete falsa; voi siete molto leale. Nulla mi avete promesso e nulla mi avete mantenuto. Dal primo istante che vi vidi, vi giudicai: siete rimasta immutabile. Mi congratulo con voi, contessa Laura: voi avete carattere. Carattere d'indifferenza, di apatia, se vogliamo, unito ad una giusta misura di vanità. Bel carattere: io vi ammiro. --Credete voi che Teresa Realps sposerà vostro cugino Mario?--disse lei, reprimendo un piccolo sbadiglio. --Questo matrimonio pare che vi diverta come le mie incoerenze. Sarebbe meglio per voi andare al teatro. --Grazie; per me è lo stesso. Se volete, rimango qui sino a mezzanotte. Mi diverto anche qui. --Che cosa potrebbe farvi piangere, Laura? --Mi chiamate per nome, mi sembra--disse lei lentamente e freddamente, guardandolo fisso col suo sguardo grigio. --Vi chiedeva che cosa potrebbe farvi piangere, contessa Mormile. --... non so... non so... ma qualche cosa ci deve essere. La troverò. --E me la direte? --Forse. Vi piacerebbe veder le mie lagrime? --Io non le vedrei--disse Sanseverino, abbassando il capo. --Bah!--fece lei, stringendosi nelle spalle. E si alzò per prendere la sua mantiglia. Scesero lo scalone, l'uno a braccio dell'altra, muti, senza guardarsi. Allo sportello della carrozza egli salutò con una grande scappellata. Laura sorrise. --Verrete più tardi al teatro, Sanseverino? --A far che? --Quello che tutti fanno. --No. Me ne vado a giuocare al Circolo. --Questo vi distrae? --Punto. Tutto è inutile, tutto. Buona sera, contessa Mormile. --Buona sera, duca Sanseverino. Nel meriggio di settembre tutto taceva. Nella campagna attorno era un grande silenzio. Ogni tanto, di lontano, s'udiva il rumore di una carrozza che passava sulla strada maestra. Nel pianterreno della villa un paio di servitori dormivano sulle panche dell'anticamera, una cameriera agucchiava presso una finestra, un guattero strofinava silenziosamente l'argenteria in cucina. La contessa Laura non amava il fracasso in campagna. Ella stessa stava nel suo salone favorito, che era un po' salone, un po' veranda e un po' serra, dove le tendine moderavano la luce, il ponente soffiava amabilmente, uno zampillo d'acqua rinfrescava l'aria, e i fiori d'autunno appagavano l'occhio. La contessa vestita di casimira bianca, coperta di merletti bianchi, adorna di rose bianche sul seno e nei capelli, si dondolava in una poltroncina americana. --... Voleva dirvi, Sanseverino--continuò con la sua voce seducente e molle--che rimarrò a Capodimonte sino alla fine di ottobre. --Così tardi? Eppure voi non amate la campagna, non l'avete mai amata. --Vi sembra? Non so veramente se io l'ami ora. Ma la sua pace mi attrae, mi soggioga. La città deve essere orribile, arsa dal sole, corrosa dalla polvere, piena di gente borghese e piena di chiasso. Che caldo deve fare laggiù! La sera, quando sto sul terrazzo, mi par di vedere Napoli fumare come una grande macchina a vapore. Ed il vostro Sorrento come lo avete lasciato? --Bellissimo ed elegante; vi è tutto il vostro Circolo. Ognuno si domanda perchè voi manchiate. --Anche voi lo domandate? --Io non oso domandare più nulla, lo sapete. Sono i vostri amici. Fanno commenti, supposizioni... --Che dicono? --Io non lo ripeterò mai. --Anzi, me lo ripeterete. --Per comando? --Per comando. --Dicono che avete un innamorato. --Credete voi che io abbia un innamorato?--domandò lei fissandolo stranamente. Egli sentì come un brivido passargli per le ossa, e rispose: --Non lo credo. --E perchè? Sanseverino tacque. Ella raccolse una rosa da un cestino che aveva accanto e glie la gettò. Egli la prese a volo e la odorò lungamente, mentre ella osservava con attenzione. Aveva baciato il fiore o aspirato solamente il profumo? --... ditemi, Sanseverino, a Sorrento, avete spesso pensato a Napoli? --Vale a dire, contessa? --... a Capodimonte? --A Capodimonte? --... voleva dire a me--concluse lei con voce dolente e arrossendo un poco. Egli la guardò, sorpreso. Ma ella non gli dette tempo di rispondere: --Ho letto, ieri l'altro, una parola misteriosa in un libro misterioso. È la parola: ideale. Non sorridete, la conoscevo: ma non comprendevo bene che fosse. È la nuvola che passa, non è vero, l'ideale? È la musica che abbiamo nella mente? È il quadro dipinto nella fantasia? È un fantasma adorato? È tutto questo, non è vero? --Tutto questo ed altro ancora, signora. --O amico, voi dovete averlo ed amarlo un ideale. Ditemi qual è. --Io non posso dirvelo. --E che? non mi amate voi forse?--sclamò lei, con gli occhi lucenti. --Sì, ma non vi dirò il mio ideale. --Ebbene, non me lo dite: io lo so. L'ho indovinato: il mio cuore è diventato profeta. Il vostro ideale è una donna, quella donna che v'ami. Consolatevi e ringraziate il Signore. L'ideale è vivo: io v'amo, Cesare. --Non scherzate, Laura. --Non scherzo, vi voglio bene, --V'ingannate, forse. --Non m'inganno: vi voglio bene. Egli impallidiva sempre più. Un tremolio gli agitava gli angoli delle labbra. --Ve ne scongiuro, Laura, non mentite! Rimanete bella, malvagia, seducente, ma indifferente, ma lontana, ma inafferrabile! Se volete che v'adori, ditemi che non mi amate. --Io non vi capisco, voi siete pazzo, Cesare: io so che v'amo. --Addio, Laura. --Non ve ne andrete, spero. --Me ne vado; addio. --Cesare, Cesare! Ella spalancò un balcone; la viva luce del sole la ferì. Si spenzolò sulla ringhiera e gli gridò: --Da tanto tempo, Cesare! Dal primo, dal primo momento... --Tanto peggio--disse lui, chinando il capo. E si perdè nella lontananza della via. Giuoco di pazienza. La giovane donna si chiamava Tecla, nome duro e schioccante. Era bassa, senza nessuna nobiltà di statura, malgrado portasse la testa ritta e le spalle cadessero benissimo. Era pienotta senza esagerazione di rotondità, e pareva molto svelta nel suo busto strettissimo. Forse con l'abitudine aveva presa quell'aria di sveltezza che sembrava naturale. Si moveva con facilità, con certe mossettine carezzose che stavano bene al suo corpo di bambina felice. Aveva naturalmente un bel braccio, un po' corto, ma graziosamente rotondo, con un'attaccatura molto fine che indicava quanto fossero delicate le ossa sotto quella carne soda e fragrante di salute. La mano sembrava un cuscinetto di raso, una mano troppo morbida che non si osava stringere per timore di guastarcela. Il piede era delizioso, piccolo, sottile, inarcato, con una caviglia elegantissima: per contemplarlo, qualche volta, si dimenticava la testa. La quale aveva un singolare carattere di forza e di energia sopra quel corpo piacevolmente grassotto; era un'anomalia, una sovrapposizione bizzarra. Una testa forte su cui si ammassava una ricchezza cupa e pesante di capelli neri, intrecciati, stretti, raccolti, ma che finivano per piegare le forcinelle e per accumularsi sul collo, sfatti, a sprie semi-ritorte. Sulla fronte nè piccola frangia tagliata, nè

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Argomenti: giovane donna,    grande macchina,    falso colore,    gente borghese,    nome duro

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