Fior di passione di Matilde Serao pagina 26

Testo di pubblico dominio

laboratorio, curvo sui suoi congegni delicati, senza nè dormire, nè mangiare, non toccando neppure il boccale di birra che gli ponevano accanto; l'opera veniva alla luce bella e perfetta. Allora egli sorrideva, cantava, ballava dalla gioia, amava Bertha, amava Lottchen, amava tutto il mondo, viveva, scendeva in piazza, acchiappava un par di bambini e li soffocava di baci, mormorando, balbettando che aveva lavorato per essi, che li voleva veder contenti per quanto egli aveva sofferto. E il suo pensiero si fermava sulle infinite testoline bionde e brune che sono le stelle della terra; si fermava con orrore nelle cupe officine, dove tristi inventori lavoravano a creare un'arma nuova e più delle altre micidiale--ed allora l'anima sua si allargava nell'orgoglio di un lavoro onesto e giocondo. Malgrado la sua cera assorta, noncurante, le sue distrazioni, il suo silenzio, la gente gli voleva bene. Il direttore se lo teneva caro, sfruttandone il genio inventivo. Bertha lo curava come un grosso bambino inesperto, dandogli sulla voce, carezzandolo, dirigendolo in tutte le azioni della vita in cui si mostrava tanto ingenuo. Lottchen lo disprezzava, lo tormentava e lo amava. I bambini se lo mostravano a dito nella via, gli tenevano dietro, gli saltavano addosso, gli frugavano nelle tasche, era la divina provvidenza per loro. Egli camminava colla testa nelle nuvole, artista innamorato dell'arte, sognatore incorreggibile, con le dita che gli si movevano come se toccassero molle misteriose. L'idea fissa scacciava a poco a poco tutte le altre. Alle volte si stordiva tanto da rimanere inebetito per un paio di minuti; poi nel cervello cominciava una ridda infernale d'idee che cozzavano fra loro, e allora gli operai non avevano il tempo di copiare un modello che già dalla cameretta usciva nuovo lavoro. Il direttore sorrideva. Lottchen diventava sempre più triste, sempre più collerico; il polso di Ulrich era mosso da una febbre continua che ne consumava e rinnovava il sangue. Egli si faceva sempre più esperto nell'arte, ne aveva penetrati tutti i segreti: era arrivato alla finezza dell'ultimo tocco, della più lieve sfumatura, all'eleganza più leggiadra, al gusto raffinato, alla solidità, a tutte le qualità riunite insieme in un'armonia completa. Creava dei giocattoli meravigliosi--e mai, mai si era sentito così intensamente felice. Il direttore gli dava sempre notizie del favore che toccava a que' giocattoli. Venivano grandi ordinazioni. Solamente, un giorno, gli disse con un mezzo sorriso: --Siate più semplice. Ulrich non vi badò. Anzi, nella sua mente s'intrigavano, si complicavano sempre più mille forme, mille congegni. Fece un uccellino che apriva le ali, gonfiava la gola e cantava. Il direttore lo ammirò, ma non molto; fece qualche difficoltà per le riproduzioni, poi non disse più nulla. Dopo un paio di mesi, duramente: --Sapete, Ulrich? L'uccellino ha fatto fiasco. È troppo ingegnoso: i bambini non lo capiscono. Il povero artista impallidì e tacque. Solo, pianse. Ecco che i bambini non lo comprendevano più, adesso! Si spezzava dunque il grande legame fra lui e il suo piccolo pubblico? Poi, ubbidiente e buono, si sfogò a far semplice. Non gli riusciva. Era arrivato ad un punto in cui l'arte divenuta poema, non s'adatta a ritornar sillabario. Le forme semplici gli sfuggivano e correva dietro, di nuovo, alle astruserie più alte. L'insuccesso cresceva, Ulrich tremava di paura ogni volta che una nuova creaturina del suo cervello gli usciva dalle mani. Era mortificato. Dubitava di sè stesso, dell'arte, di tutto. Temeva sempre aver commesso qualche grosso sbaglio materiale. Sentiva intorno a sè una diffidenza vaga; non osava guardare in viso sua sorella, la sua fidanzata. I ragazzi gli davano soggezione: a volte un dolore cocente lo spingeva quasi a chieder loro: Ma che debbo io fare di meglio? Perchè non vi comprendo più, perchè non mi comprendete più? Invece fuggiva nella campagna a sfogare solitario i suoi lamenti. Odiava quasi l'arte sua; lasciava inoperosi gli strumenti, vuota la cameretta, secchi i pennelli. Pensava troppo, oramai. Il suo pensiero si smarriva. Era ammalato, aveva un fuoco insolito negli occhi. Poi, dopo un lungo periodo d'inerzia, prese una risoluzione energica e si chiuse nel suo laboratorio. Voleva meravigliar tutti con un lavoro stupendo, riacquistare d'un tratto la sua fama d'artista, riconquistare per sè l'ammirazione e il riso dei fanciulli. Concentrò tutta la sua attenzione, adoperò utilmente, riunendole, raddoppiandole, le forze dell'arte, compì sino alla perfezione ogni piccolo pezzo, lavorandoci con amore infinito, con ardore, con la passione della disperazione. Ne venne fuori un giocattolo straordinario: sullo stesso piano, una fattoria, delle contadinelle che battevano il burro, le pecore che pascolavano, le galline che razzolavano, il gallo sul campanile della chiesetta, l'acqua del ruscello fra le pietre, le lavandaie che lavavano; tirata la corda, tutto questo mondo si muoveva, il gallo cantava, le galline pigolavano, le contadinelle agitavano le braccia, le pecore brucavano l'erba, il ruscello scorreva, le lavandaie lavavano. Una meraviglia, a compire la quale Ulrich aveva esaurita tutta la potenza del suo ingegno. Compiuta che fu, una soddisfazione gli entrò nell'anima esacerbata, e sorrise. Dopo tanto tempo che non sorrideva. Ma quando fu a dar la via al suo capolavoro, tremò....
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........................................... Egli sedeva nella sua cameretta, con la testa fra le mani, ansioso, trepidante. Era l'ultima prova che tentava. Sulla porta Lottchen comparve. --Dove è Hans?--chiese egli vivamente. --È di là. --Chiamalo. --Non verrà. --Perchè? --Ha paura di venire. --Paura di venire?... e perchè?... --Non affliggerti, Ulrich, e non castigare il bimbo. Ha rotto il giocattolo. --.... Lo ha rotto? --Per la rabbia. Non lo capiva, Ulrich. ..........................................
.......................................... Ora quando la luna piove la sua luce pallida nelle viuzze di Nuremberg, dove tutti dormono, un uomo corre e gesticola, oppure siede in terra e guarda il cielo. Ma le sue dita si agitano come se lavorassero intorno a misteriosi congegni. È Ulrich che folleggia, avendo nel cervello l'idea grandiosa ed informe di un giocattolo mostruoso, immane, impossibile. Commediola. Nel parco, nel bosco, ne' prati, avevan passeggiato per molto tempo. Avevan calpestato moltissima erba odorosa, e le scarpette della signora dovevan esserne profumate; lei si lagnava di una pietruzza fra la calza di seta e la suola. Avevan disturbato una quantità infinita di nervose lucertoline, di grilli, di formiche; anzi, a proposito delle formiche, il signore, un po' intenerito, voleva dare un tuffo nella poesia. Il sole di luglio, dal cielo, avrebbe voluto disturbar loro, ma l'ombrellino della signora era largo, gli alberi erano pieni di foglie ed un leggiero ponente soffiava. Poi erano profondamente allegri, con una vena inesauribile di spirito, mordendo tutte le malinconie umane col loro sorriso, che nella signora era gaio e sincero, e nel signore un po' scettico. Questi due esseri, che per conto mio e di chi mi legge dichiarerò insopportabili, erano ancora giovani, e se non belli, simpatici; eran soli, nella campagna, nella stagione ricca e non erano punto innamorati. Neppure turbati. Ridevano, si divertivano immensamente e non si erano dati braccio. Si erano burlati di molte cose insieme, dell'idillio specialmente. Si erano burlati delle eterne vergini bionde che sfogliano un'eterna margarita, di Paolo e Virginia a proposito del grande ombrellino della signora, delle famose farfallette innamorate che s'inseguono sulle siepi, dell'usignuolo storico che canta fra i rami, di Catullo che la signora non aveva letto ed il signore sì, della Faute de l'abbé Mauret che ambedue avevano letto, di tutte le elegie più o meno malinconiche, di tutte le

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Argomenti: tanto tempo,    lungo periodo,    lavoro onesto,    grosso bambino,    ridda infernale

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