Il diavolo nell'ampolla di Adolfo Albertazzi pagina 10

Testo di pubblico dominio

gli occhi, e gli tirai la coperta sul viso. — E le carte? — Le ho qui, con me.... Erano alcune lettere di mano femminile, in una busta; una fotografia e una ciocca di capelli biondi. — Com'è bella! — esclamò l'Ida considerando, presso la finestra, il ritratto della giovine donna. Ma la sua ammirazione crebbe quando, sciolto il filo di seta che stringeva la ciocca, s'avvide che solo tre capelli bastavano a comporla, tanto erano lunghi! Disse: — Sono più belli dei miei. Giulio scosse il capo e ribattè, serio: — No; noi italiani preferiamo i capelli neri e lucenti, come i tuoi. E ritornarono al focolare. Ripigliò lui: — Bruciar tutto. Perchè? — Volontà di moribondo. — Perchè distruggere? — Giulio domandò. — Si indovinerebbe dalle lettere, chi sapesse leggerle. — Ho un superiore che lo conosce, il tedesco, ma non gliele ho mostrate. — Hai fatto bene — disse l'Ida. E soggiunse: — Forse temeva, quel poveretto, che un giorno, se verrà la pace, le lettere e i ricordi fossero rimandati al suo paese. Temeva di compromettere la donna. — Già — mormorò il giovine. — L'ho sospettato anch'io: la moglie di un altro. Io però non lo credo. — E allora? — essa rifletteva. Mormorò: — Forse hai ragione tu. Non avrebbe aspettato all'ultimo momento se avesse temuto di comprometterla. Ma Giulio scosse di nuovo il capo. — No. Ignoranti o istruiti, in guerra si è tutti eguali; tutti persuasi, mentre si vedono cascar gli altri, che le pallottole, le spolette o le schegge debbano rispettar noi. E sai chi ci dà questa persuasione? Proprio i ricordi che si portano sul petto; di nostra madre e di chi ci vuol bene. L'Ida sorrise, con gli occhi pieni di lagrime. Egli prese dal portafogli il ritratto di lei; lo considerò quasi per rinnovarsi, ora che le sedeva vicino, le impressioni che aveva a considerarlo quando era lontano, lassù; e pacatamente lo ripose. Dopo, afferrò le lettere e la busta con la fotografia e la ciocca di capelli, e buttò tutto nel fuoco. — «Fuoco, prego». — Cercava rendere con la sua voce il suono delle parole indimenticabili, e osservava le carte accendersi, la fiamma invaderle raggrinzando la busta. Esclamò: — Vampata d'amore! —; e la frase gli parve così bella che guardò, contento, l'Ida. Ma essa: — Di' dunque: perchè distruggere? — Ascolta — rispose Giulio. — Quando due che si sono amati, si lasciano, cosa fanno perchè ogni legame sia troncato per sempre? Si restituiscono i pegni d'amore. Un pegno è una memoria, è un obbligo a ricordare: è vero? — È vero. — Quell'ufficiale sentendosi morire pensò che la sua fidanzata, se riavesse le lettere, il ritratto, i capelli, non resterebbe legata alla sua memoria, come ci resterebbe invece se credesse che qualche cosa di lei fosse andato sottoterra con lui. Se non che l'Ida obiettava ancora: — Avrebbe pregato di seppellir le carte, non di bruciarle. — Rifletti — ribattè Giulio. — Doveva dubitare che non lo seppellissi io; e non si fidò di altri, anche se io promettevo. Nel modo che mi guardava io capii che intendeva dirmi: di voi posso fidarmi. Sembran misteri e sono verità così semplici! Alla ragazza tornarono a luccicare gli occhi. — Ma io sarò più spiccio — seguitò Giulio. — Sul tuo ritratto ci scriverò: «Seppellitelo con me, prego». — E sorrise. — Giulio! — gridò lei. — E tu, se io morissi? — dimandò lui, pacatamente. Ah, la prova; la gran prova d'amore! L'Ida corse a prendere le forbici, si disciolse una treccia. E lui tagliò tre capelli, li compose in ciocchettina, li baciò e li pose col ritratto nel portafogli. Pacatamente. Ma allora la ragazza gli gettò le braccia al collo singhiozzando. Piangeva come piange una bambina per meritar perdono. — Cosa ti salta in mente? — fe' Giulio scostandola a un tratto, e fissandola. Una nube gli passò per lo sguardo. Si ricordava adesso le parole di lei. — Che confidenza dicevi d'avermi a fare? — chiese. — Questa — essa rispose rasserenata e felice: — che niente, nessuno al mondo mi separerà più da te. Capisci? Con te, vivo o morto, l'anima mia. Per sempre! IL NIDO. Mai più splendido cielo; mai aria più olente e queta.... E soli lor due andavano per l'argine che limitava la risaia dall'immensa prateria. I colori del maggio inoltrato vi superavano la verde mèsse e la trapungevano: giallo di graziole, di tulipani e ranuncoli; lilla di porrette; gridellino di vecce; viola di prunelle e di salvie; bianco di ornitogali e nigelle, di eriche e giunchiglie; rosa e azzurro di giacinti; bleu di fiordalisi; rosso di trifoglio e papaveri. E margherite da per tutto. Quante! Andavano, gli amanti, soli, guardando intorno; guardandosi e sorridendo senza trovar parole. Nei tardi passi, vicendevolmente e quasi timidamente, avvertivano che i loro sguardi eran pieni di ricordi, dei più lieti ricordi. E così parevano accrescersi l'intima gioia d'un ritorno a sè medesimi e approfondire la coscienza della loro anima; parevano estendere la capacità vitale d'ogni senso, schiarire il pensiero all'esistenza come ridesta, risorgere nell'essere loro, reintegrati d'ogni minima forza, a una vita rinnovata e a una sconosciuta armonia. Era una letizia lieve, di sogno, eppure tenace e valida; era un'illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà che li accoglieva; era un vago desiderio continuo e di continuo esaudito in quel fluire degli attimi; era la consapevolezza di una felicità certa e immanente. Essa, di tanto in tanto, si chinava al margine e spiccava un fiordaliso o un ranuncolo o un geranio campestre. Poi, tendendo le mani al prato in cui non ancora piede d'uomo aveva lasciato traccia e da cui la concordia delle tinte assorgeva come quella dei suoni in una sinfonia, esclamò: — Vorrei correre, gettarmi là in mezzo! — Va! Ella scosse il capo. — Non si può, senza calpestare! Più avanti, al serbatoio, discesero nella barca. Remava lui. Anche l'acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie or scarse or copiose in canne e giunchi, e chiusa all'ingiro dalle sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura. Canerini di valle si levavano con un vocìo sottile e così vivace da crederlo non segno di paura ma di più viva gioia nel volo. Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta di cannelle e saracchi, e ristette dove l'acqua bruna, sotto l'ombra, rivelava un brivido, al rezzo. Udirono uno svolazzar forte, di folaghe e anitre. E più nulla. — Restiamo un poco? — A lungo ella sarebbe voluta restar là con lui. Gli abbandonava la mano nella mano. — Sei contenta d'esser venuta? — Non te l'avevo promesso...: a primavera? E di': non ti sembra che se non fossi venuta in un giorno così bello la nostra felicità sarebbe stata meno grande? Egli strinse forte la bianca mano. — Sei mia! E lei: — Quanto bene mi vuoi! Di nuovo tacquero cedendo alla dolcezza di quell'ora, in quella solitudine e nel silenzio che solo qualche pigolìo interrompeva, o qualche canto lontano. Il profumo dei fiori lontani perveniva fin troppo greve. A quando a quando un murmure fra il canneto. D'improvviso l'amata chiese a bassa voce: — Hai sentito? Si rivolse a rimuover le fronde e gli esili fusti più prossimi; volle ch'egli avanzasse la barca a quella parte, per veder meglio nel folto. — Là! — dissero a una voce. A limite dell'acqua, poggiato sui giunchi che il peso piegava, era un nido di folaghe. Avanzando ancora la barca, ecco balzar dal nido nell'acqua, con un doloroso richiamo, la folaga spaurita; e si levò a svolazzare su l'acqua intorno chiamando disperatamente il compagno. Più nero, con un cóvv minaccioso, il maschio giunse, dalla macchia; cadde di volo, lì appresso; ma a scorgere il pericolo enorme si mise a correre per terra, con tal fretta e con tanta smania di fughe e ritorni che pareva impazzito.

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Argomenti: capacità vitale,    vago desiderio,    desiderio continuo,    pericolo enorme,    vago desiderio continuo

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