La trovatella di Milano di Carolina Invernizio pagina 13

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fatali documenti, che l'avrebbero messo all'indice dalla società? Invano egli si era sforzato anche dinanzi a Gabriele a mantenere la sua calma: ebbe un'imprecazione per il morto, poi rimettendosi alquanto. —Potete cedermi la vostra vettura?—chiese vivamente al giovane.—Fa duopo che mi rechi io stesso sul luogo del delitto. —Mi sembra, signor conte—rispose Gabriele dissimulando un movimento di stupore—che in tal modo compromettereste tutto. Il conte alzò bruscamente il capo. —Per qual ragione? —Ricordatevi la raccomandazione di quella giovine, non pensate adesso che a vostra figlia. L'impazienza del conte non conosceva più limiti. —A costo di qualsiasi cosa, bisogna che vada, voglio sapere se Diego ha lasciato qualche scritto compromettente… —A quest'ora, signore, non siete più in tempo; le autorità devono già essere sul luogo, perchè nessuno ebbe testa in quel momento d'impedire al servo del marchese di correre a dar l'allarme, e voi sapete meglio di me, che quando in una casa si commette un delitto, non si può toccare cosa alcuna, fin dopo le constatazioni legali. Questo dialogo aveva avuto luogo in un salotto presso la camera, dove era stata posta Adriana, che rinvenuta, si lasciava spogliare macchinalmente da Clarina, guardandola con occhi sbarrati, senza riconoscerla. Ma ad un tratto si era svincolata dalla cameriera ed in preda ad un terrore pazzo, si era slanciata nella stanza vicina, ricadendo priva di sensi tra le braccia del padre, che ebbe appena il tempo di sostenerla. Ciò produsse una diversione nei sentimenti del conte: il suo furore si rallentò ed in faccia a Gabriele, ebbe il coraggio di dissimulare. —Avete ragione—disse—in quest'istante non debbo pensare che a mia figlia. Ma quando dall'autorità fu avvertito dell'assassinio commesso sul marchese ed invitato a recarsi alla villetta per assistere personalmente all'inchiesta, ricominciò a tremare e si stropicciò colla mano la fronte, che l'angoscia solcava di rughe profondissime. Quando si trovò dinanzi al cadavere di Diego, il suo viso scialbo non ebbe che una leggiera contrazione, ma questa si accentuò ed il sangue gli salì al cervello, allorchè vide lo scompiglio, che regnava nella stanza del marchese. —Che vuol dir ciò?—chiese con accento impossibile tradursi a parole—oltre l'assassinio, è stato qui commesso anche un furto? —Ora esamineremo, signore: conoscete presso a poco la quantità dei valori, che si trovavano rinchiusi in questo scrittoio? —L'ignoro affatto—rispose il conte con voce tremula—so soltanto, che mio genero teneva presso di sè… dei documenti importanti di famiglia. —Che fossero questi?—disse uno degli agenti incaricati dell'inchiesta, mostrando un mucchio di carta bruciata. Il conte era ritornato all'apparenza calmo, freddo. —Ora vedremo—disse.—Ma la cosa sarebbe assai strana. Si trovarono i giojelli, le cambiali, dei fogli di banca, dell'oro, ma nessuna carta, nessuna corrispondenza. Pareva che al conte gli si fosse sollevato un immenso peso dal petto. Il suo spavento cessava, ma si accresceva in lui lo stupore. Da che proveniva quella generosità della bella guantaia, dell'omicida? Qual sentimento l'aveva spinta a distruggere quelle carte, a cercare di seppellire un segreto che poteva giovarle? Avrebbe voluto saperlo, ma nello stesso tempo si guardava bene dal chiederlo… Solo alcuni giorni dopo, gli venne riferito che Maria essendo stata interrogata sui motivi che l'avevano indotta a rovistare i cassetti di quello scrittoio, a bruciare quelle carte, disse che ella voleva distruggere tutta la sua corrispondenza col marchese, ed avendo trovato altre lettere di donna le mise tutte in un fascio, con diversi fogli, senza neppure esaminarli, tanto si trovava eccitata. Mentiva quella giovine o diceva la verità? Così si chiedeva il conte… In ogni modo, un immenso sollievo gli allentò i nervi: egli non si era mai sentito più felice e leggiero… e ringraziava il destino che per mezzo di quella fanciulla, l'aveva liberato da un incubo, che da tanti anni lo tormentava e da un miserabile, che era stato per così lungo tempo suo carnefice. L'unico che fosse sfuggito all'attenzione generale, era Gabriele… Nessuno lo disturbò, nè chiese di lui, che ormai aveva libero accesso al palazzo del conte, il quale comprendeva che per far dimenticare a sua figlia l'ultimo colloquio avuto col marchese, quand'ella sarebbe stata in grado di ricordare, l'unico che potesse giovarle, lasciarle credere che Diego aveva mentito, rivelandole un segreto che non esisteva, era Gabriele Terzi. Ed il giovine non dimenticava la solenne promessa fatta a Maria! Un altro testimone importante nel processo che si stava istruendo, era la vecchia popolana Annetta, che tutti credevano madre della bella guantaia… Ma la povera donna, già affranta del dolore, per il cambiamento avvenuto nella fanciulla, che adorava, non aveva resistito all'ultimo colpo, ed assalita da una paralisi, si trovava all'ospedale in pericolo di vita ed incapace a pronunziare parola. Così tutto si univa per rendere il dramma più solenne, misterioso! CAPITOLO UNDECIMO. Un mistero svelato. Benchè la mattinata fosse assai frigida, piovigginosa, pure la via del Senato, il cortile del palazzo Elvetico e la vasta Sala della Corte d'Assise, ove già seguivano le solennità scolastiche dei Collegio Elvetico, erano straordinariamente affollate di gente avida di assistere al dibattimento della bella guantaia, la quale malgrado il suo delitto, si era acquistata una simpatia generale. L'accusata comparve dinanzi alla Corte, vestita di nero, col velo tradizionale, sotto cui spiccava la sua faccia bianca, illuminata dai grandi occhi azzurri, nei quali eravi un'espressione di sofferenza, di stanchezza, da non potersi dimenticare. Ella teneva alta la testa, ma quell'apparenza di orgoglio era temperata da un mesto sorriso, che sembrava riflettere i dolori dell'anima. Nel momento in cui Maria veniva introdotta nel banco degli accusati, appariva dall'altra parte, il conte Ercole Patta. Egli non sarebbe comparso fra i testimoni, ma non aveva potuto resistere alla curiosità di vedere la giovane, che lo preoccupava più di sua figlia Adriana, perchè non sapeva spiegarsi il contegno di lei, il suo strano modo di agire con chi aveva contribuito a perderla. Bisogna anche aggiungere che il conte temeva che al momento supremo, dinanzi alla Corte, la bella guantaia facesse qualche imprevista rivelazione. E sebbene egli pensasse che distrutte quelle carte non aveva più nulla a temere, pure non si sentiva tranquillo, ed al lividore del viso, aggiungeva un'inquietudine nervosa, che gli faceva in certi istanti fin battere i denti… La vista di Maria gli produsse una sensazione non mai fino allora provata. Gli pareva di aver veduta altra volta quella figura slanciata, piena d'alterezza, quel viso di un pallore diafano, che portava le traccie dei lunghi patimenti sofferti in silenzio, quei grandi occhi glauchi, che si fissavano nel vuoto, senza nulla vedere… Ma dove? Quando? Ad un tratto fece un balzo come se si destasse repentinamente, il cuore gli si strinse in una crispazione spaventosa, un'esclamazione pazza gli salì alla gola e per rattenerla, fece uno sforzo così violento, che i pomelli delle sue gote, s'infiammarono, negli occhi ebbe una specie di barbaglio… Egli tremò ancor più sentendo la voce dell'accusata, che ripeteva la confessione fatta al giudice istruttore, senza aggiungere o togliere una sola parola… —Insistete a dire che eravate sola col marchese Diego nella villa di Cernusco, dove egli stesso vi condusse?—esclamò il presidente.—Continuate ad affermare che avete colpito per difendervi? —Affermo ed insisto, perchè è la verità. Avevo il desiderio di punire colui che mi straziò l'anima, mi coprì di vergogna, ma vi giuro che non l'avrei fatto, se egli stesso non mi avesse spinta. Parlava con voce chiara, che aveva talvolta delle vibrazioni

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