La trovatella di Milano di Carolina Invernizio pagina 16

Testo di pubblico dominio

una vergogna, porti il peso delle vostre colpe e non ne aggravi la mia innocente sorella: non voglio saper altro di voi, nè dovervi nulla. Io non avrò altro nome che quello datomi da mia madre adottiva, io non sarò che sua figlia! Così dicendo s'inginocchiò su di uno sgabello, dinanzi alla popolana, le appoggiò la testa sul seno. Annetta che l'aveva ascoltata in silenzio, in preda ad un'emozione indescrivibile, si curvò verso di lei, baciandola a lungo, con intensa passione; i suoi occhi erano pieni di lacrime. Il conte era impallidito sotto la contrazione di una sofferenza acuta. —Dunque mi rinneghi?—balbettò. Maria non rispose. —Sono stato molto colpevole—proseguì il conte—ma vorrai tu essere inesorabile con me, che venni qui per riparare i miei torti, renderti il posto che ti aspetta, le ricchezze alle quali hai diritto? La popolana sussultò combattuta fra il timore e lo sconforto; lo sconforto per quella poveretta, che sentiva meritevole di miglior destino; il timore di separarsi da lei. —Vi ringrazio, signore—disse Maria senza collera, ma senza emozione—preferisco la povertà vicino a lei, che la ricchezza al vostro fianco. —Ma non io intendo dividervi: ella verrà con te, nel mio palazzo. —Non più, signore—interruppe Maria con un accento d'indignazione frenata, che le rese la sua altera beltà—la moglie di Mario Durini, uno degli eroi caduti sulle barricate di Porta Vittoria, la popolana che arrischiò la sua vita per la libertà, non può vivere sotto il tetto di chi ha traditi i suoi fratelli, la patria. Ed io porto il nome di quel morto glorioso, e di mia madre adottiva. —Maria ha ragione,—mormorò piano la popolana, che pur provò un senso di pietà per l'espressione di vergogna, comparsa sul viso infocato del conte. —Sei crudele,—disse questi a mezza voce. —Sono giusta. Il conte cominciava ad irritarsi. —E se io ti obbligassi a seguirmi? Maria si alzò in piedi con impeto, incrociando le braccia. —Con quale diritto? —Sono tuo padre. —Come potrete dimostrarlo? Forse raccontando le vostre gesta passate? Se vi abbassaste fino ad una così orribile confessione, forse avrei della compassione per voi, potrei perdonarvi, ma piuttosto che seguirvi, rinnegare chi mi ha dato più della vita, mi ucciderei. Era chiara, risoluta: l'espressione del suo viso… mostrava abbastanza che non mentiva. Il conte pure si era alzato e per un momento padre e figlia si tennero di fronte, guardandosi fissamente negli occhi; egli con una cupa rabbia nel cuore: Maria cercando dentro di sè la voce del sangue e non trovando che il grido della repulsione. —Non vuol dunque proprio nulla da me?—disse il conte a denti stretti. —Una sol cosa: che mi dimentichiate. Egli non aggiunse parola; si diresse lentamente; verso l'uscio; forse sperava all'ultimo momento che la figlia lo richiamasse, ma la giovine rimase immobile, muta presso la popolana. Il conte si morse le labbra e se ne andò sbatacchiando la porta. Allora Annetta stese verso la giovine le sue mani scarne e tremanti e con un'angoscia dolorosa, che rendeva la sua voce fievole, velata. —Non ti pentirai un giorno—balbettò—di esserti mostrata inesorabile, d'averlo respinto? Non rimpiangerai le ricchezze alle quali rinunciasti? —Ma non vale il tuo cuore più di tutte le ricchezze del mondo? Chi non andrebbe orgogliosa di chiamarsi tua figlia? Io rimpiango di non averti amata, apprezzata abbastanza, come meritavi: io mi pento per i dolori che ti ho recati e le lacrime che ti feci versare. Ma non fu mia colpa: era destino. Maria sentiva la sua mente trascinata in un turbinio di pensieri tristi, lugubri. Però l'altera creatura si riscosse quasi subito e mettendo sulla guancia della popolana un bacio rovente. —Io non voglio che te, madre mia—replicò—oh! chiamami sempre col dolce nome di figlia. Annetta sentì passarsi nel cuore un'ondata di gioia e mentre ricambiava con trasporto i baci di Maria, due grosse lacrime le caddero dagli occhi su quella fronte, che il dolore, la sventura avevano purificata! CONCLUSIONE. Una scena dolorosa e sinistra si svolgeva nel palazzo del conte Ercole Patta. Adriana moriva. La scossa subita all'orribile, inaspettata rivelazione del marito, le aveva spezzata la vita. Crisi nervose violentissime si erano succedute senz'intervallo l'una all'altra, logorando il suo corpo, mettendo nel suo cervello delle allucinazioni tremende, che la facevano prorompere in grida strazianti, contorcersi fra terribili convulsioni. Erano stati chiamati a consulto le prime celebrità della scienza; si tentarono i rimedii più arrischiati, pericolosi, fu fatta viaggiare, la condussero in Isvizzera, in Germania, alle terme più rinomate; ma da tutti questi sforzi, queste prove, era uscita vieppiù affranta, coll'organismo intieramente distrutto. Ed allora i medici dichiararono che non vi era più nulla a fare. Adriana espresse il desiderio di ritornare a Milano e fu esaudita. Vi giunse morente. Il primo giorno che ella riacquistò la facoltà di sentire, riflettere, pensare, fu sorpresa, trovando Gabriele al suo fianco. —Come siete qui?—sussurrò. —Ebbi il permesso da vostro padre. —E mio marito? Gabriele non rispose… —Ma dove siamo? Che è successo? Tremava orribilmente e stringendosi colle mani la fronte… —Ah! ricordo… ricordo tutto… ciò… che mi ha detto… Diego; andate… andate… Gabriele, se conosceste di chi sono figlia, se scopriste il tremendo segreto di mio padre. —Quel segreto… è una menzogna. —Che?… Che dite?… —Che nulla vi ha nella vostra vita, nè in quella di vostro padre, di cui possiate arrossire. Il giovane parlava coll'accento della verità, ma Adriana non era convinta. —Voglio vedere mio padre, parlar solo con lui—esclamò—andate a chiamarlo. Il conte non tardò a comparire. Benchè cercasse sorridere, il suo volto aveva un lividore di morte. —Che desideri, mia cara?—disse accostandosi al letto. —Voglio che tu mi prometta di ricercare la fanciulla che un giorno abbandonasti,—disse la giovane donna, con estrema emozione, fissandolo intensamente negli occhi. Il conte cadde nel laccio. Con voce debolissima, curvando addolorato il capo. —Lo farò, te lo giuro,—rispose. Era una confessione, Adriana mandò un grido straziante. —Ah! non mentiva adunque, Diego: oh! che infamia, figlia… di una spia… moglie di un miserabile… Dio… Dio… che ho fatto per punirmi così!… Da quel momento non si ebbe più speranza di salvarla: ella non volle più vedere alcuno, nemmeno Gabriele; si diceva indegna di lui, di tutti. Il conte fu costretto a non più varcare la soglia della stanza di sua figlia, perchè la presenza di lui, la faceva cadere in terribili convulsioni. La sera in cui il medico annunziò che Adriana non avrebbe trascorsa la notte, il conte, come pazzo dal dolore, si trascinò sulle ginocchia al letto di sua figlia, balbettando fra i singhiozzi: —Perdono, perdono… Adriana lo sentì. Da qualche momento una gran calma si era succeduta nella sua anima… alla tempesta di prima. Aveva ricevuti i Sacramenti e le parole che il Sacerdote, le aveva rivolte, allorchè essa gli confessò di non aver la forza di perdonare a coloro che le fecero tanto male, le rimasero impresse nella mente. —Non dite così figlia mia, non siate meno clemente di Dio. Per ogni peccato misericordia, e ricordate che basta talvolta una lacrima sincera di pentimento a scontare una vita d'iniquità… E suo padre piangeva ai suoi piedi, supplicava di perdonarlo? Adriana non resistette, le sue labbra serrate si apersero a mezzo ed un nome ne sfuggi. —Papà. Era proprio lei che l'aveva chiamato?… Il conte la fissò un istante cogli occhi velati, foschi, umidi, poi chiese tremando: —Mi perdoni? —Sì… Oh! il grido delirante di gioia! Quanti baci lunghi, ardenti sulla fronte di lei! Ma sentendo che diveniva di ghiaccio, impallidì spaventosamente… —Adriana… non morire… non

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