Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 12

Testo di pubblico dominio

tritato dalle negre di Venezuela. E poi, per rincette, potete sorseggiare un bitter di nuova invenzione che vi porge una svizzera in costume di Berna all'ombra d'un chioschetto signorile; o andare nel chiosco olandese, dove tre belle frisone rosee, col casco dorato, vi fanno sentire il curasò o lo scidam; o arrischiarvi a gustare il liquor di fichi nel padiglione del Marocco, rallegrato dagli strimpellamenti di tre suonatori, uno dei quali pesa centonovanta chilogrammi a stomaco vuoto; o mettervi fra le labbra un sigaro di nuovo genere che invece d'un nuvoletto di fumo vi caccia in bocca un bicchierino di cognac. Ne avete abbastanza? Ma voi volete fumare. Ebbene, ci sono i sigari avvelenati della Repubblica d'Andorre, e la magnifica esposizione dei sigari di Cuba, d'ogni grandezza e di ogni forma, dorati, stemmati, odorosi,—veri lavoretti d'arte—profusi a miriadi,—davanti ai quali il fumatore italiano estenuato dai patimenti passa «sospirando e fremendo.» Tutta questa doppia galleria dei prodotti alimentari è ammirabile per varietà e per ricchezza. È un'architettura interminabile di bottiglie che s'alzano in torri, in scale a chiocciola, in gradinate multicolori e scintillanti; una moltitudine di tempietti splendidi d'oro e di cristalli, che potrebbero coprire delle statue di numi, e coprono dei porci salati; una magnificenza di teatrini, d'altari, di troni, di biblioteche, pieni di ghiottumi così graziosamente disposti e decorati, che il gran pittore delle Halles di Parigi ne potrebbe cavare un quadro meraviglioso per uno dei suoi romanzi avvenire. Lo spettacolo più bello è quello che presenta la gente. A certe ore il recinto dell'Esposizione è più popolato di molte grandi città. I visitatori entrano per venti porte. I viali, i vestiboli, le gallerie, i passaggi traversali, e il labirinto infinito delle sale del campo di Marte, è tutto un brulicame nero, in cui c'è da fare a non perdersi. Specialmente nelle «sezioni estere», dove i venditori formano da sè soli una specie d'esposizione antropologica dilettevolissima, C'è un gran numero di belle ragazze inglesi che lavorano ai loro registri, intente e impassibili, in mezzo a quel via vai, come se fossero in casa propria. I Giapponesi,—vestiti all'europea,—chiaccherano rano e giocano, seduti intorno ai loro tavolini, allegri, forse con un po' d'ostentazione, per darsi l'aria di gente che si sente benissimo al suo posto nel cuore della civiltà occidentale; e infatti hanno già preso tanto l'aria di casa, che quasi nessuno li guarda. I Chinesi, invece, hanno sempre intorno un cerchio di curiosi, ai quali rivolgono di tratto in tratto uno sguardo sprezzante, che rivela, come un lampo, la superbia cocciuta della loro razza; e poi ripigliano la loro impassibilità di idoli, da cui li smuove soltanto la voce dei compratori. Si vedon dei mercanti orientali, in turbante, che strascicano le loro ciabatte in mezzo a tutte quelle meraviglie, guardando intorno oziosamente colla stessa stupida e irritante indifferenza che mostrerebbero nelle loro vecchie baracche di bazar. Tratto tratto se ne trovano tre o quattro estatici davanti a una faccia di cartapesta o a una marionetta che allarga le braccia. Ci son molti algerini: arabi, mori, negri. S'incontrano delle brigatelle di spahi, ravvolti nei loro grandi mantelli bianchi; ma non son più le faccie baldanzose del 1859. L'orgoglio del vecchio esercito d'Africa non brilla più nei loro grandi occhi neri. Come cambia i volti una guerra perduta! Qua e là si vede pure qualche faccia color di rame, e qualche vestimento arlecchinesco dei paesi confinanti colla China. Oltre a questo c'è una moltitudine immobile e muta di gente d'ogni paese, che produce una strana illusione. Ogni momento rasentate col gomito qualcuno, che vi pare una persona viva, ed è un grosso fantoccio colorito e vestito di tutto punto, che vi fa restare a bocca aperta. Ci sono dei selvaggi del Perù, degli indigeni d'Australia colle loro grandi capigliature, lanose, dei guerrieri medioevali, delle signore vestite in gala, dei soldati italiani, delle contadine di Danimarca, delle lavandaie malesi, delle guardie civili di Spagna, e annamiti e indiani e cafri e ottentotti, che vi si parano dinanzi improvvisamente, e vi fissano in volto i loro occhi trasognati, come fantasime. Lo spettacolo è ancora variato e rallegrato da un gran numero di signore che girano su poltrone a ruote o su carrozzine da bimbi, tirate davanti da un servitore, spinte per la spalliera dai mariti, fiancheggiate dai ragazzi; matrone poderose, le cui rotondità sporgono da tutte le parti fuori del piccolo veicolo, lunghissime zitelle inglesi che ci stanno tutte raggruppate, colle ginocchia aguzze all'altezza del mento; signoroni decrepiti che godono là, probabilmente, l'ultimo piacere della vita; vecchie patrizie paralitiche, e putti meravigliosamente biondi e rosati dei paesi nordici, che formano tutti insieme, in quel labirinto di vie fiancheggiate da case di vetro, una specie di corso in burletta, degno della matita del Cham. Nella Via delle nazioni, all'ombra delle capannette di paglia, molta gente fa colezione sulle ginocchia come per viaggio, e i bimbi vanno a prender acqua alle fontane del Giappone e dell'Italia; altri sgranocchiano pane e prosciutto camminando; delle coppie coniugali dormono saporitamente sui sedili in mezzo alla folla; e altre coppie, che hanno portato i loro amori all'Esposizione, si servono di due capannine avvicinate per farsi qualche carezza di contrabbando. È un divertimento poi, nelle sale, studiare i varii tipi dei visitatori. Ci sono i cavalli matti che scorazzano da tutte le parti senza vedere una maledetta, presi da una specie d'esaltazione febbrile, e i visitatori pazienti, che si son fatti un programma, che muovono un passo ogni quarto d'ora, che meditano sui cataloghi, che guardano, fiutano e discutono ogni menoma cosa, che impiegheranno probabilmente sei mesi a fare il giro di tutto il Campo di Marte. Tra gli espositori, si vedono i visi radianti dei fortunati, che hanno trovato là gloria e fortuna, e troneggiano sui loro banchi in mezzo alla folla dei curiosi e dei compratori; e i poveri diavoli trascurati, seduti nei loro cantucci solitarii, colla testa bassa e la faccia malinconica, che meditano sulle speranze perdute. Nelle ultime sale, i divani son tutti occupati dai visitatori spossati. Si vedono delle famiglie intere di buoni provinciali, sfiniti, sbalorditi, istupiditi; i papà tutti in acqua, le mamme che soffocano, le ragazze ingobbite, i piccini morti di sonno; proprio da farsi domandare:—Ma chi v'ha consigliato di venire all'Esposizione, disgraziati?—L'affollamento maggiore è sotto le grandi arcate delle Belle arti, e intorno al Padiglione della città di Parigi, che drizza i suoi sei frontoni imbandierati nel mezzo del Campo di Marte. Qui è il luogo di convegno dello «stato maggiore» dell'Esposizione. Qui fanno crocchio gli artisti e i commissarii di tutti i paesi, gli operai si radunano e si sciolgono, i critici tagliano l'aria coi gesti cattedratici, i giornalisti notano, i disegnatori schizzano, le discussioni fervono, i curiosi cercano i visi illustri, i nuovi arrivati si ritrovano, le «celebrità» dell'Esposizione passano fra le scappellate e gli inchini. Ecco qui monsieur Hardy, per esempio, l'architetto del Palazzo del Campo di Marte; ecco là monsieur Duval, direttore dei lavori idraulici, e i signori Bourdais e Davioud, architetti del Palazzo del Trocadero. E purchè abbiate una faccia un po' straordinaria, e due amici ai fianchi, che vi parlino in atto rispettoso, potete passare facilissimamente per un principe o per un re che visita l'Esposizione in stretto incognito, e sentirvi intorno, qua e là, un mormorio sommesso da vestibolo di Corte. C'è da cavarsi tutti i gusti, da soddisfare tutti i bisogni e da riparare a tutti gli accidenti. Potete telegrafare a casa, scrivere le vostre lettere, fare il bagno, prendere di tanto

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Argomenti: fumatore italiano,    labirinto infinito,    vecchio esercito,    vestimento arlecchinesco,    moltitudine immobile

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