Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce pagina 8

Testo di pubblico dominio

ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa. Onde nel porre ch'ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gambaro non se n'avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch'ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso. Colui che lo percosse, non sapendo ch'ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare. Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intravenuto, e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gambaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: «Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi». «Ma come fuggiremo – disse la granzella – che non siano vedute le nostre pedate?» «Tu caminerai per traverso – disse il gambaro – e io all'indietro, e così ci torremo di sotto». Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone e con tanta destrezza che il gambaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potero coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne' quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l'avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gambaro camina all'indietro e la granzella per fianco. E perché il gambaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa, perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola RE Sì, certo, e sei stato un grand'uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa' ch'io ti vegga e non ti vegga, e portami l'orto, la stalla e il molino. BERTOLDO Indovinala tu, Grillo. Orsù, io vado, e m'ingegnarò di fare quel ch'io saprò. Astuzia di Bertoldo per comparire innanzi al Re nel modo sopradetto. Il giorno seguente Bertoldo fece fare una torta a sua madre di bietola ben unta con butiro, casio e ricotta in abbondanza, e poi, preso un crivello da formento, se lo pose sopra la fronte, sì che pendeva giù al petto e al ventre; e così con esso e con la torta tornò dal Re, il quale, vedendolo comparire in guisa tale, ridendo disse: RE Che cosa vuol dire quel crivello che tu hai dinanzi al viso? BERTOLDO Non mi commettesti tu ch'io tornassi a te in modo tale che tu mi vedessi e non mi vedessi? RE Sì, ti commisi. BERTOLDO Eccomi dunque doppo i buchi di questo crivello, dove tu mi puoi vedere e non mi puoi vedere. RE Tu sei un grand'uomo e ingegnoso; ma dove l'orto, la stalla e il molino ch'io ti dissi che tu portassi? BERTOLDO Ecco qui questa torta, nella quale vi sono infuse tutte tre le dette cose, cioè la bietola, la quale dinota l'orto, il casio, il butiro e la ricotta, che significa la stalla, e la spoglia della farina, che altro non vuol dimostrare che il molino. RE Io non ho mai veduto né pratticato il più vivo intelletto del tuo; però serviti della mia corte in ogni tua occorrenza. Piacevolezza di Bertoldo. A queste parole Bertoldo, scostatosi alquanto dal Re e ritiratosi nella corte, si calò le brache, mostrando di voler fare un suo servigio corporale; laonde, veduto il Re tal atto, gridando, disse: RE Che cosa vuoi tu fare manigoldo? BERTOLDO Non dici tu ch'io mi serva della tua corte in ogni mia occorrenza? RE Sì, ho detto; ma che atto è questo? BERTOLDO Io me ne voglio servire adunque a scaricare il peso della natura, il quale tanto m'aggrava ch'io non posso più tenerlo. Allora uno di quelli della guardia del Re, alzato un bastone, volse percuoterlo, dicendogli: «Brutto poltrone, va' alla stalla dove vanno gli asini pari tuoi, e non fare queste indignità innanzi al Re, se non vuoi ch'io t'assaggi le coste con questo legno». A cui Bertoldo rivolto, disse: BERTOLDO Va' destro, fratello, né voler tu fare il sofficiente, perché le mosche che volano sulla testa ai tignosi vanno sulla mensa regale ancora e cacano nella propria scodella del Re e pure esso mangia quella minestra; e io dunque non potrò fare i miei servigi in terra, che è cosa necessaria? E tanto più che il Re ha detto ch'io mi serva della sua corte in ogni mio bisogno? E qual maggior bisogno per servirmene poteva venirmi che in questo fatto? Intese il Re la metafora di Bertoldo e si cavò di deto un ricco e precioso anello e, volto a lui, disse: RE Piglia questo anello, ch'io te lo dono; e tu, tesoriero, va', porta qui mille scudi ch'io gliene voglio far un presente or ora. BERTOLDO Io non voglio che tu m'interrompa il sonno. RE Perché interrompere il sonno? BERTOLDO Perché quand'io avessi quell'anello e tanti danari io non poserei mai, ma mi andarei lambiccando il cervello di continuo, né mai più potrei trovar pace né quiete. E poi si suol dire: chi l'altrui prende, se stesso vende. Natura mi fece libero, e libero voglio conservarmi. RE Che cosa poss'io dunque fare per gratificarti? BERTOLDO Assai paga, chi conosce il beneficio. RE Non basta conoscerlo solamente, ma riconoscerlo ancora con qualche gratitudine. BERTOLDO Il buon animo è compìto pagamento all'uomo modesto. RE Non deve il maggiore cedere al minore di cortesia. BERTOLDO Né deve il minore accettar cosa che sia maggiore del suo merito. La Regina manda di nuovo a chieder Bertoldo al Re. Mentre essi andavano così ragionando insieme, gionse un altro messo da parte della Regina, con una lettera la quale conteneva che il Re gli mandasse Bertoldo per ogni modo, ché, sentendosi ella un poco indisposta, voleva passare il tempo alquanto con le piacevolezze di lui. Ma ciò era al contrario, anzi ch'ella aveva fatto pensiero di farlo privar di vita avendo inteso che per opera sua quelle matrone avevano ricevuto quello affronto dal Re, per lo quale erano in tanta rabbia che se l'avessero potuto aver nelle mani l'averiano lapidato. Il Re, letta la lettera, prestando fede alle parole della Regina, volto a Bertoldo, disse: RE La Regina di nuovo mi t'ha mandato a domandare e dice ch'essendo alquanto indisposta vorrebbe che tu l'andasti un poco a trattenere e fargli passar l'umore con le tue piacevolezze. BERTOLDO Anco la volpe talora si finge inferma per trapolar i polastri. RE A che proposito dici tu questo? BERTOLDO Perché né tigre, né femina fu mai senza vendetta. RE Leggi qui, se tu sai leggere. BERTOLDO La prattica mi serve per libro. RE Sdegno di donna nobile tosto passa via. BERTOLDO Le cernici coperte tengono un pezzo calda la cenere. RE Non odi tu le buone parole ch'ella ti manda a dire? BERTOLDO Buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti. RE Orsù, chi ha d'andar vada, che l'acqua non è spada. BERTOLDO Chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda. RE Da corsaro a corsaro non si perde altro che i barilli vuoti. BERTOLDO Una cosa pensa il ghiotto, l'altra il tavernaro. RE Il far servizio mai non si perde. BERTOLDO Servizio con danno, Dio

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