Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni pagina 7

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COMMISSARIO E s'egli Al suo Signore antico, al primo ond'ebbe Onor supremi, all'alta creatura Della sua spada, più terror che danno Volesse far? fargli pensar soltanto Quel ch'egli era per lui, quel che gli è contro? Tal nemico mostrarglisi, ch'ei brami D'averlo amico ancor? S'ei non potesse Tutto staccare il suo pensier da un trono Ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo Grado dopo colui che v'è seduto? Se un duca ardente di conquiste, e inetto A sopportar d'una corazza in peso, Che d'una mano ha d'uopo e d'un consiglio — Che al condottier lo chiede, e gli comanda Ciò ch'ei medesmo gl'inspirò — più grato Signor, più dolce al condottier paresse, Che molti, e vigilanti, e più bramosi Di conservar che d'acquistar, cui preme Sovr'ogni cosa il comandar davvero? PRIMO COMMISSARIO Tutto io m'aspetto da costui. SECONDO COMMISSARIO Teniamo Questo sospetto: il suo contegno, i nostri Accorgimenti il faran chiaro in breve, O ad altro almen ci guideranno. Ei trama Certo. — Colui che trama, e del successo Si pasce già, come se il tenga, ardito Parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza In faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto Un altro, o pensa a diventarlo ei stesso. No: da Filippo ei non è sciolto in tutto. A quella stirpe onde la sposa egli ebbe Non è stranier: troppo gli è caro il nodo Che ad essa un dì lo strinse. In quella figlia, Che ha tanta parte in suo pensier, non scorre Col suo confuso de' Visconti il sangue? PRIMO COMMISSARIO Come parlò! Come passò dall'ira Al non curar! Con che superba pace Disubbidì! Siam noi nel nostro campo? Di Venezia i mandati? Eran costoro Vinti e prigioni? E più sicuro il guardo Portavano di noi! noi testimoni Del suo poter! del conto in cui ci tiene, Dei nostri acquisti così sparsi al vento, Di tal gioja, di tai grazie, di tali Abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote. — Che avviso è il vostro? SECONDO COMMISSARIO Avvene due? Soffrire, Dissimular, fargli querela ancora D'un'offesa che mai creder non puote Dimenticata, e insiem la strada aprirgli Di ripararla a modo suo, gradire Che ch'ei ne faccia, chiedergli soltanto Ciò che siam certi d'ottenerne; opporci Sol quanto basti a far che vera appaja Condiscendenza il resto; a dichiararsi Non astringerlo mai... vegliare intanto; Scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi. PRIMO COMMISSARIO Viver così! Che si diria di noi? Dell'alto ufficio che ci fu commesso, A cui venimmo invidiati, e or tale Diviene?... SECONDO COMMISSARIO È sempre glorioso il posto Dove si serve la sua patria, e dove Si giunge ai fini suoi. Soldati e duci Tutti sono per lui, l'ammiran tutti, Nessun l'invidia; a sommo onor si tiene Bene obbedirlo; e in questo sol v'è gara Che ad essergli secondo ognuno aspira. — Voce sì cara e riverita in prima, Che forza avrebbe in lor poscia che udita L'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe Se proferisse mai quella parola, Che in core han tutti — la rivolta? Guai! Che più? — gli udimmo pur — come de' suoi, E nel pensiero de' nemici in cima. PRIMO COMMISSARIO Ma siamo in tempo? Ei già sospetta. SECONDO COMMISSARIO Il siamo. Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti A prodigar la vita, a non temere in periglio, ad amarlo, e delle imprese A non guardar che la speranza, alfine Più ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli Non fosser poi nel resto, ed i sospetti Facili a palesar come a deporli; Se una parola di lusinga, un atto Di sommessa amistà non li volgesse A talento di quel che l'usa a tempo; A che saremmo? ubbidiria la spada? Saremmo ancora i Signor noi? PRIMO COMMISSARIO Sta bene. Riesca, o no, questo partito è il solo. FINE DELL'ATTO TERZO ATTO IV SCENA I Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia. MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi. MARCO Eccomi al cenno degli eccelsi Capi Del Consiglio dei Dieci. MARINO Io parlo in nome Di tutti lor. Vi si destina un grave Incarco, fuor di qui: se un argomento Di confidenza questo fia... la vostra Coscienza il diravvi. MARCO Ella mi dice Che scarsa al merto ed all'ingegno mio Dee la patria concederla, ma intera Alla fede ed al cor. MARINO La patria! È un nome Dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente Di vivere per lei; ma proferirlo Senza tremar non dee chi resta amico De' suoi nemici. MARCO Ed io... MARINO Per chi parlaste Oggi in Senato? Per la patria? I vostri Sdegni, i vostri terrori eran per lei? Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio, O il periglio di chi? Chi difendeste... Voi solo? MARCO Io so davanti a chi mi trovo. Sta la mia vita in vostra man, ma il mio Voto non già: giudice ei non conosce Fuor che il mio cor; né d'altro esser può reo Che d'avergli mentito. A darne conto Pur disposto son io. MARINO Tutto che puote Por la patria in periglio, essere inciampo All'alte mire sue, dargli sospetto, È in nostra man. Perché ci siate or voi Se nol sapete, se mostrar vi giova Di non saperlo, uditelo. Per ora D'oggi si parli; non vogliam di tutta La vostra vita interrogar che un giorno. MARCO E che? fors'altro mi si appon? Di nulla Temer poss'io; la mia condotta... MARINO È nota Più a noi che a voi. Dalla memoria vostra Forse assai cose ha cancellato il tempo: — Il nostro libro non obblia. MARCO Di tutto Ragion darò. MARINO Voi la darete quando Vi fia chiesta. Non più. — Quando il Senato Diede il comando al Carmagnola, a molti Era sospetta la sua fede; ad altri Certa parea: potea parerlo allora. — Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri Mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde In perfid'ozio la vittoria. Il velo Cade dal ciglio ai più. — Nel suo soccorso Troppo fidando il Trevisan s'innoltra Nel Po, le navi del nemico affronta; Sopraffatto dal numero, richiede Al Capitan rinforzo, e non l'ottiene. Freme il Senato; poche voci appena S'alzano ancor per lui. — Cremona è presa, Basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre. Giunge l'annunzio oggi al Senato. — Alfine Più non gli resta difensor che un solo: Solo, ma caldo difensor. Per lui Innocente è costui, degno di lode Più che di scusa; e se vi fu sventura, Colpa è soltanto del destino e nostra. — Non è giustizia che il persegue: è solo Odio privato, è invidia, è basso orgoglio Che non perdona al sommo a chi tacendo Grida coi fatti: io son maggior di voi. — Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri Nel lor Senato oggi l'udiro; e muti Si volsero a guardar donde tal voce Venia, se uno straniero oggi, un nemico Premere un seggio nel Senato ardia. — Chiarito è il Conte un traditor; si vuole Torgli ogni via di nuocere. Ma l'arte Tanta e l'audacia è di costui, che reso Ei s'è tremendo a' suoi Signori; è forte Di quella forza che gli abbiam fidata; Egli ha il cor de' soldati; e l'armi nostre, Quando voglia, son sue; contro di noi Volger le puote, e il vuol. Certo è follia Aspettar che lo tenti; ognun risolve Ch'ei si prevenga, e tosto. A forza aperta È impresa piena di perigli. E noi Starem per questo? E il suo maggior delitto Sarà cagion perché impunito ei vada? Sola una strada alla giustizia è schiusa, L'arte con cui l'ingannator s'inganna. Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga: Questo è il voto comun. Che fece allora L'amico di costui? Ve ne rammenta? Io vel dirò; ché men tranquillo al certo Era in quel punto il vostro cor, dell'occhio Che imperturbato vi seguia. Perdeste Ogni ritegno, oltrepassaste il largo Confin che un resto di prudenza avea Prescritto al vostro ardor, dimenticaste Ciò che promesso v'eravate intero Ai men veggenti vi svelaste, a quelli Cui parea novo ciò che a noi non l'era. Ognuno allor pensò ch'oggi in Senato C'era un uom di soverchio, e che bisogna Porre il segreto dello Stato in salvo. MARCO Signor, tutto a voi lice. Innanzi a voi Quel che ora io sia, non so; — però non posso Dimenticarmi che patrizio io sono; Né

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