Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni pagina 3

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che dove Semina l'ira, il pentimento miete. Dura scuola ed inutile! Alfin stanco Di far leggi a me stesso, e trasgredirle, Tra me fermai, che s'egli è mio destino Ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato Che mestier faccia a disbrigarli appunto Quella virtù che più mi manca — s'ella È pur virtù —, s'è mio destin che un giorno Io sia colto in tai nodi, e vi perisca; Meglio è senza riguardi andargli incontro. Io ne appello a te stesso: i buoni mai Non fur senza nemici, e tu ne hai dunque. E giurerei che un sol non è fra loro Cui tu degni, non dico accarezzarlo, Ma non dargli a veder che lo dispregi. Rispondi. MARCO È ver: se v'ha mortal di cui La sorte invidii, è sol colui che nacque In luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto Mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove Solo trovarsi ove più forza è d'uopo Che accorgimento: quindi, ove convenga Simular, non ti faccia maraviglia Che poco esperto io sia. Pensa per altro Quanto più m'è concesso impunemente Fallire in ciò che a te; che poche vie Al pugnal d'un nemico offre il mio petto; Che me contra i privati odj assecura La pubblica ragion; ch'io vesto il sajo Stesso di quei che han la mia sorte in mano. Ma tu stranier, tu condottiero al soldo Di togati Signor, tu cui lo Stato Dà tante spade per salvarlo, e niuna Per salvar te... fa che gli amici tuoi Odan sol le tue lodi; e non dar loro La trista cura di scolparti. Pensa Che felici non son, se tu nol sei. Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi Che ancor più addentro nel tuo cor risuoni Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia A cui tu se' sola speranza: il cielo Diè loro un'alma per sentir la gioja, Un'alma che sospira i dì sereni, Ma che nulla può far per conquistarli. Tu il puoi per esse — e lo vorrai. Non dire Che il tuo destin ti porta: allor che il forte Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai Signor di sé che non pensava in prima. IL CONTE Tu hai ragione. Il ciel si piglia al certo Qualche cura di me, poiché m'ha dato Un tale amico. Ascolta; il buon successo Potrà, spero, placar chi mi disama: Tutto in letizia finirà. Tu intanto Se cosa odi di me che ti dispiaccia, L'indole mia ne incolpa, un improvviso Impeto primo, ma non mai l'obblio Di tue parole. MARCO Or la mia gioja è intera. Va, vinci, e torna — Oh come atteso e caro Verrà quel messo che la gloria tua Con la salute della patria annunzi! FINE DELL'ATTO PRIMO ATTO II SCENA I Parte del campo ducale con tende. MALATESTI e PERGOLA. PERGOLA Sì, condottier; come ordinaste, in pronto Son le mie bande. A voi commise il Duca L'arbitrio della guerra: io v'ho obbedito, Ma con dolor: ve ne scongiuro ancora, Non diam battaglia. MALATESTI Anzian d'anni e di fama, O Pergola, qui siete: io sento il peso Del vostro voto; ma cangiar non posso Il mio. Voi lo vedete, il Carmagnola Ci provoca ogni dì: quasi ad insulto Sulli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto: E due partiti ci rimangon soli; O lui cacciarne — o abbandonar la terra Che saria danno e scorno. PERGOLA A pochi è dato, A pochi egregi il dubitar di nuovo, Quando han già detto: ella è così. S'io parlo È che tale vi tengo. Italia forse Mai da' barbari in poi non vide a fronte Due sì possenti eserciti: ma il nostro L'ultimo sforzo è di Filippo. In ogni Fatto di guerra entra fortuna, e sempre Vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando Ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi Dargliene più che non chiede. E questo Esercito con cui tutto possiamo Salvar, ma che perduto in una volta Mai più rifar non si potria, non dèssi Come un dado gittarlo ad occhi chiusi, Avventurarlo in un sì picciol campo, E in un campo mal noto, e quel ch'è peggio Noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto Argin divide le due schiere: a destra E a sinistra paludi, in esse sparsi I suoi drappelli: e noi fuori dei nostri Alloggiamenti non teniamo un palmo Pur di terren. Credete ad un che l'arti Conosce di costui, che ha combattuto Al fianco suo: qui v'è un'insidia. Forse La miglior via di guerreggiar quest'uomo Saria tenerlo a bada, aspettar tempo, Tanto che alcun dei duci ai quali è sopra Pigliasse a noja il suo superbo impero, E il fascio ch'egli or nella mano ha stretto Si rallentasse alfin. Pur, se a giornata Venir si debbe, non è questo il loco: Usciam di qui, scegliamo un campo noi, Tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno, Senza svantaggio almanco, si decida. MALATESTI Due grandi schiere a fronte stanno; e grande Fia la battaglia: d'una tale appunto Abbisogna Filippo. A questi estremi A poco a poco ei venne, e coi consigli Ch'or proponete. A trarnelo, fia d'uopo Appigliarci agli opposti: il rischio vero Sta nell'indugio, e nel mutare il campo Rovina certa. Chi sappia dir quanto Di nunero e di cor scemato ei fia, Pria che si ponga altrove? Ora egli è quale Bramar lo puote un capitan; con esso Tutto lice tentar. SCENA II SFORZA FORTEBRACCIO e detti. MALATESTI Ditelo, o Sforza, E Fortebraccio; voi giungete in tempo: Ditelo voi, come trovaste il campo? Che possiamo sperarne? SFORZA Ogni gran cosa. Quando gli ordini udir, quando lor parve Che una battaglia si prepari, io vidi Un feroce tripudio: alla chiamata Esultando venièno, e col sorriso Si fean cenno a vicenda. E quando io corsi Entro le file, ad ogni schiera un grido S'alzava; ognuno in me fissando il guardo Parea dicesse: o condottier, v'intendo. FORTEBRACCIO E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei, Tutti mi furo intorno. Un mi dicea: Quando udremo le trombe? Altri: noi siamo Stanchi d'esser beffati: e tutti in una La battaglia chiedean, come già certi Dell'ottenerla, e dubbj sol del quando. Ebben, compagni, io rispondea, se il senno Presto s'udrà, mi date voi parola Di vincere con me? Gli elmi levati Sull'aste, un grido universal d'assenso Fu la parola, ond'io gioisco ancora. E a tai soldati ci venia proposto D'intimar la ritratta; ed alle mani, Che già posate sulle spade aspettano L'ordin di sguainarle e di ferire, Si comandasse di levar le tende? Chi fronte avria di presentarsi ad essi Con tal ordine ormai? PERGOLA Dal parlar vostro Un nuovo modo di milizia imparo; Che i soldati comandino, e che i duci Obbediscano. FORTEBRACCIO O Pergola, i soldati A cui capo son io, fur da quel Braccio Disciplinati, che per tutto ancora Con maraviglia e con terror si noma; E non son usi a sostener gli scherni Dell'inimico. PERGOLA Ed io conduco genti Da me, qual ch'io mi sia, disciplinate; E sono avvezze ad aspettar la voce Del condottiero, ed a fidarsi in lui. MALATESTI Dimentichiamo or noi che numerati Sono i momenti, e non ne resta alcuno Per le gare private? SCENA III TORELLOe detti. SFORZA Ebben, Torello, Siete mutato di parer? Vedeste L'animo ardente de' soldati? TORELLO Il vidi; Udii le grida, del furor, le grida Della fiducia e del coraggio; e il viso Rivolsi altrove, onde nessun dei prodi Vi leggesse il pensier che mal mio grado Vi si pingeva: — era il pensier che false Son quelle gioie e brevi: era il pensiero Del valor che si perde. Io cavalcai Lungo tutta la fronte: io tesi il guardo, Quanto lunge potei, rividi quelle Macchie che sorgon qua e là dal suolo Uliginoso che la via fiancheggia: Là son gli agguati, il giurerei. Rividi Quel doppio cinto di muniti carri, Onde assiepato è del nemico il campo. Se l'urto primo ei sostener non puote, Ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne Preparato al secondo. Un nuovo è questo Trovato di costui, per torre ai suoi Il pensier primo che s'affaccia ai vinti, Il pensier della fuga. Ad atterrarlo Due colpi è d'uopo: ei con un sol ne atterra. Perché — non giova chiuder gli occhi a vero — Non son più quelle guerre, in cui pe' figli E per le donne e per la patria terra E per le leggi che la fan sì cara Combatteva il soldato, in cui pensava Il capitano a statuirgli un posto, Egli a

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