Il benefattore di Luigi Capuana pagina 8

Testo di pubblico dominio

di agire riflessivamente. Ormai suo padre diceva spesso: —Noi siamo già siciliani; questi terreni che la mia cultura ha reso fecondi, ci hanno fatto diventare altrettanti alberi umani, e vi abbiamo posto fonde radici, come le viti e come le piante di aranci e di limoni. E, scherzando, soleva aggiungere rivolto alla figlia: —Tu sei l'olivo specioso, tua madre la vite… e mia sorella… l'opunzia indica spinosa! Ella infatti, cresceva bella e sana sotto quel cielo così limpido, tra quella vegetazione così rigogliosa. Metteva visibile impegno nel rendere vere le parole del padre, apprendendo a parlare il dialetto e sforzandosi di pronunciarlo col minor accento straniero possibile. La sua intimità con Paolo infatti si era aumentata, facendo con lui pratici esercizi dialettali, cosa che anche la divertiva quando ella non arrivava a sormontare la difficoltà di certi suoni di consonanti che la sua gola non si prestava a rendere facilmente. E come sorrideva, orgogliosa, allorchè il maestro improvvisato poteva dirle: —Brava!… Lei vuol dunque diventare siciliana a dirittura? —Non mi aduli! Così era passato un anno; così la solitudine del cottage le si era popolata di dolci fantasmi, senza che ella sentisse il bisogno di accertarsi se essi non erano un'illusione cagionata dalla sua giovine fantasia, o riflessi di una realtà intraveduta da occhio vigile e accorto, e che equivalevano a una certezza. Non lo avea nascosto a Paolo. Perchè avrebbe dovuto nasconderglielo? Nè se ne pentiva ora che all'improvviso le si era rivelata la verità intorno alla sua triste situazione. Lei e i suoi si trovavano colà più stranieri di quando vi erano arrivati; suo padre, il benefattore, veniva già stimato un invasore, un intruso, uno sfruttatore della miseria di coloro a cui egli aveva pagato, più che realmente non valessero, i terreni acquistati; di coloro a cui aveva dato, per parecchi anni, modo di guadagnar da vivere onestamente, dignitosamente, con mercedi che erano servite di esempio, di paragone e che gli altri proprietari avean dovuto adottare; di coloro a cui aveva mostrato, con la pratica, in che maniera potevano rendere più fecondo il meraviglioso suolo da loro posseduto e lasciato quasi in abbandono. Ed erano appunto questi—i proprietari, i galantuomini—che aizzavano gli odii, che spargevano attorno la diffidenza; invidiosi, maligni e anche ciechi, perchè non s'accorgevano di fare il loro male agendo in quel modo. Ne aveva parlato, il giorno dopo, con suo padre, strappandogli quasi per forza una confessione di quel triste stato di cose. Il signor Kyllea non era indignato, nè scoraggiato: aveva voluto nascondere, alle sue donne la verità per non affliggerle e per non atterrirle; giacchè la signora Kyllea e la cognata avevano la mente piena di pregiudizi intorno ai siciliani, ed erano quasi stupite di non aver visto finora invadere Villa Elsa da briganti con tromboni e cappelli a cono ornati di penne di gallo, come li immaginavano vestiti, ricordando certi disegni di giornali, di Magazzini, di riviste. —Accade così per tutto, quando qualcuno sposta interessi, crea nuove risorse. Lotta lunga, ostinata, violenta; ma si finisce sempre con vincere!—aveva soggiunto il signor Kyllea.—Come non vincere, se si hanno alleati di questa forza? A miss Elsa parve che suo padre dicesse queste cose con sottile accento di affettuosa malizia, e arrossì. —Oh!—rispose—Certi alleati talvolta possono nuocere più che giovare! Ma suo padre non le badò; scrollò il capo sorridendo, poi, tornato serio, disse: —Gli alleati, per lo meno, debbono essere prudenti, e non far sapere ad altri… E questo divieto aggiunse un senso di sgomento alla profonda impressione prodotta dalle rivelazioni di lui. Ella stava per dirgli: —Senti, babbo!… La confessione di quel che era avvenuto tra lei e Paolo quella mattina, le tremava da un pezzo su le labbra, impaziente, quasi sospinta dal rimorso di essere stata taciuta parecchi giorni. Ma, appunto in quel momento, dopo le tristi cose accennate dal padre, le parve che la dichiarazione di Paolo, e il loro fidanzamento di un istante fossero stati un sogno, nient'altro che un sogno. E si trattenne, stringendo le labbra, quasi ringhiottendo le parole che le fremevano nella gola. Disse soltanto, e con energia: —Vinceremo, babbo! X. Spuntava appena l'alba. Il signor Kyllea, che aveva l'abitudine di alzarsi di buon'ora, era uscito su la terrazza a fumare e a respirare un po' d'aria libera prima di prendere il bagno freddo. Intanto, passeggiando su e giù, faceva i suoi esercizi respiratorii turando con un dito una delle narici, aspirando forte e respirando a bocca chiusa; turandosi l'altra narice e riprendendo ad aspirare e a respirare a bocca chiusa. Si fermava, girava turbinosamente, col pugno stretto, fino a stancarsi, ora il braccio destro, ora il sinistro, dando calci all'aria avanti e indietro con la gamba sinistra quando era in moto il braccio destro, con la gamba destra quando era in moto il sinistro… A detta di lui, non c'era miglior mezzo per mantenersi sano e forte; gliel'aveva insegnato un medico indiano, di Calcutta, incontrato sul piroscafo durante un viaggio, dieci anni addietro. Ed egli, che soleva fare coscienziosamente, ogni cosa, era tutto intento a questi esercizi, quando gli parve di udire strani rumori, lassù, su la collina dirimpetto e intravedere, alla dubbia luce dell'alba, un gruppo di persone, anzi parecchi gruppi di persone che dapprima scambiò per operai, meravigliandosi di vederli arrivati così mattinieri al lavoro. In quel punto, don Liddu gli recava, su un piccolo vassoio, la tazza col caffè. —Come mai?—disse il signor Kyllea indicando con la mano in direzione della collina.—Andate a vedere. Don Liddu si avviò premurosamente, molto meravigliato anche lui. Il signor Kyllea era sceso a prendere il binocolo da campagna; ma già la luce aumentata e permetteva di scorgere lassù, a occhio nudo, un brulichìo di gente, un affaccendamento attorno al condotto dell'acqua… Il binocolo gli rivelò la devastazione che quella folla di contadini aveva già operato durante la notte e che proseguiva rabbiosamente, vandalicamente. Una bestemmia inglese gli sfuggì di bocca, e tese i pugni minacciando, quasi potesse esser visto da coloro. Scesa a precipizio la scaletta, stava per uscir fuori; don Liddu lo afferrò pel petto, balbettando: —Ah, padrone!… Per carità!… Dove vuole andare?… Lo ammazzano!… Ci sono i carabinieri!… Hanno guastato i lavori di condottura!… —Zitto!—disse il signor Kyllea. Pensava alle signore che dormivano e che si sarebbero spaventate… Ma insisteva per uscire. Due carabinieri si presentarono su la porta… —Non abbia paura; siamo qui noi!—disse uno di essi. —Non ho paura di nessuno—rispose alteramente il signor Kyllea.—Sono suddito inglese!… Ma che vogliono costoro? —Dicono che l'acqua appartiene ad essi; che lei l'ha distolta dall'altro versante della collina. —Sono matti o furfanti. —Dica: bestie piuttosto! Li hanno suscitati, incitati… Il brigadiere è là… Abbiamo telegrafato per rinforzi… Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi. I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto… —Ah! Se non ci fossero le donne!… Ho tre Remington! Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare: —Se ne vanno!… Hanno guastato tutto!… Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente… Le campane suonano a stormo! Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco!… I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire.

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Argomenti: visibile impegno,    accento straniero,    occhio vigile,    meraviglioso suolo,    sottile accento

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