Il benefattore di Luigi Capuana pagina 22

Testo di pubblico dominio

testimone di quell'incredibile stranezza—chiamiamola pure così—e torna a risonarmi nell'orecchio il suo grido:—Oh Dio! che hai fatto! Perchè? Perchè?—chino la testa pensieroso, riflettendo che misera cosa è il nostro organismo intellettuale, se cagioni tanto insignificanti possono, tutt'a un tratto, quasi annientarlo. —Mi meraviglio che un dottore parli in questo modo—disse l'abate Venini.—Io ho creduto finora, che il nostro organismo, così semplice e così delicato, abbia invece una forza di resistenza veramente straordinaria. —E appunto qui consiste il suo mistero! Urti, colpi violentissimi, spesso non vi producono nessuna notevole impressione; e quel che in confronto di essi potrebbe dirsi un soffio, una lieve spinta vi fa avverare, come nel caso di cui parlerò, un grave disastro. —Ma voi non siete impazzito! —Ero già su la via, altrimenti l'atto da me commesso sarebbe proprio inesplicabile. Ho reagito in tempo; ecco tutto. —Insomma, che cosa avete fatto?—domandò la baronessa resa impaziente dalla curiosità. —Ho distrutto un capolavoro, o per parlare con precisione, un'opera d'arte che certamente, stava per riuscire un capolavoro. —Perchè? —Perchè?… Il mio amico Doneglia, scultore valentissimo che sarebbe salito in gran fama se fosse stato meno modesto e meno incontentabile, mi tormentava da parecchi anni:—Voglio fare il tuo ritratto! —Se io fossi meno brutto!—rispondevo. —Sarai bellissimo nel marmo o nel bronzo—insisteva. —Si era fitto in mente che io avessi una testa da filosofo greco con quella lunga barba che m'ero lasciato crescere allora e i capelli folti e arruffati di cui più non c'è quasi vestigio. A me però sembrava troppo onore per la mia barba e pei miei capelli l'essere immortalati da un grande artista come lui. Pensavo ch'egli avrebbe impiegato meglio il suo ingegno e il suo tempo terminando quel suo Centauretto che ruzzava tra l'erba e pareva uscito dalle mani di uno scultore ateniese dei tempi di Fidia, quantunque lasciato non finito con la scusa che il ragazzo servitogli da modello era morto ed egli non aveva più trovato chi potesse sostituirlo. Glielo ripetevo ogni volta che tornava a tentarmi. —Ebbene—mi rispose un giorno—ti do la mia parola d'onore che finirò il Centauretto, se prima mi lascerai cavare il capriccio di fare il tuo busto! Era premio troppo grande da non vincere tutti i miei scrupoli. E misi la pretesa mia testa da filosofo greco a sua disposizione. Così vidi di giorno in giorno, sotto il nervoso pollice del mio amico e sotto l'abilissima opera della sua stecca, uscir fuori dall'informe cumulo di creta ammassata sul cavalletto la mia figura così viva e parlante, che la guardavo con stupore quasi mi fossi sdoppiato, o quasi qualche cosa di me si fosse trasfuso in quell'immagine dalle cui labbra mi attendevo di sentir scappare da un momento all'altro il suono della mia voce, come già c'era il lieve bonario sorriso che, a detta del mio amico, formava la caratteristica della mia fisonomia. I doveri di medico non mi permettevano di accordargli frequenti e lunghe pose. Spesso passavano due, tre settimane senza che io mettessi piede nel suo studio. —Oh, Dio! Ti sei un po' ingrassato!—o pure:—Oh, Dio! Sei alquanto dimagrito! Come avvenissero questi cambiamenti piccoli ma percettibili, giacchè egli li notava sùbito, non saprei dire. —Non lo faccio a posta—rispondevo scusandomi. Ne ero dispiacente perchè gli inopportuni cambiamenti ritardavano molto l'esecuzione del busto. L'incontentabile artista doveva togliere qualche cosettina qua, supplirla là; e quel po' di creta, tolta o aggiunta in un posto, determinava altre aggiunte o soppressioni, delle quali egli cercava di spiegarmi l'intima ragione per indurmi a pazientare nel martirio della posa. Ogni volta allora, riprendendo la seduta, mi sembrava ch'egli scancellasse l'impronta della straordinaria rassomiglianza; ma, alla fine, sul punto di accomiatarmi, mi maravigliavo che la rassomiglianza e l'alito di vita animatore del busto fossero col paziente lavoro divenuti più evidenti. Un giorno gli dissi scherzando: —Non mi accadrà, spero, come alla amata di quel pittore di cui si parla in una novella del Poe. Io non morrò perchè la mia vita si sarà trasfusa tutta nel ritratto quando esso sarà finito. Rispose con un brontolìo. Passava e ripassava il dito su la fronte del busto, ed io mi accorsi che egli si sforzava di spingere un po' in dentro qualche cosa di duro che la creta copriva appena. —C'è un sassolino?—domandai. —No, il cranio vien fuori… Ho messo qui un cranio per meglio modellare la testa. —Un cranio? Proprio un cranio? —Ti stupisce? Non potei nascondergli che il sapere incastrato nella testa del mio busto il cranio di un morto ignoto mi produceva repugnante impressione. —Molti scultori fanno così—egli mi disse. Rimessomi a posare, mi sentivo impacciato. Fanciullaggine! Ora lo comprendo; ma quel cranio che, vivente, aveva contenuto un cervello pensante affatto diverso dal mio, mi faceva fantasticare stranissime cose. Mi pareva che l'impronta di vita del mio ritratto dovesse ridestare le funzioni intellettive della vuota cassa cerebrale, e produrre un turbamento che poteva oltrepassare l'opera d'arte e influire su l'originale, su me che mi vedevo rivivere in essa. Mi pareva anche da sentirmi un che di estraneo dentro la testa, quasi quel cranio non fosse solamente incastrato nella creta, ma si fosse sostituito al mio, o almeno tentasse di sostituirsi al mio, come per opera di magìa. Fanciullaggine! ripeto. E tale la giudicavo da principio. Infatti, nelle sedute dei giorni appresso, scherzando all'amico scultore: —Chi sa che diamine pensa il mio ritratto con quel cranio altrui! Vi sarà rimasta qualche impressione dei pensieri là avvenuti una volta, e forse la forma esteriore può produrre il miracolo di metterli in moto. È una cosa macabra? Intanto, durante le sedute di posa mi affondavo sempre più in questa fissazione. Un crescente malessere mi invadeva. Non osavo più di scherzare intorno a quel cranio. La preoccupazione dello spirito alterava l'espressione della mia fisonomia, facendomi corrugare la fronte, e togliendo alle mie labbra la caratteristica del lieve, bonario sorriso che lo scultore era riuscito a rendere, con molto stento, nell'opera sua. —Che cosa hai?—mi domandava.—Muoviti, parla; non prendere quest'aria mutriona che ti disdice! Ed io non avevo il coraggio di confessargli che tutto proveniva dal maledetto cranio di cui egli aveva avuto la funebre idea di servirsi per modellare più facilmente la testa del busto. Ormai quel senso di malessere non era più momentaneo, durante soltanto le poche ore di posa; lo portavo via con me tutta la giornata, e, la notte, mi impediva di addormentarmi sùbito appena entrato in letto, come solevo, quantunque le visite e le occupazioni giornaliere mi facessero rientrare a casa non meno stanco di prima. Non mi sentivo più io, ma un po' quell'altro che doveva pensare dentro la testa del busto sotto l'involucro di creta che lo copriva. Ed era una smania acuta, una sofferenza tormentatrice a cui non riuscivo di sottrarrai. Mi sembrava ridicolo che mi fossi ridotto fino a questo estremo; mi davo dell'imbecille e peggio; ma nello stesso tempo provavo una vivissima attrazione verso il busto che di giorno in giorno diveniva sempre più rassomigliante e più vivo con l'amorosa, assidua carezza del pollice dell'artista, da cui vedevo affinare maravigliosamente la modellatura. Per parecchi giorni di sèguito ero andato a posare. —Poche altre sedute—mi diceva il Doneglia—e poi sarai libero. Egli, l'incontentabile, cominciava ad essere soddisfatto dell'opera sua. Ma io vedevo aumentare, con una specie di terrore, l'espressione di persona proprio viva che il busto aveva già assunto in quelle ultime sedute. Mi voltavo a ogni istante per guardarlo, irrequieto, con la sensazione di una dolorosa pressura

Tag: cranio    busto    testa    giorno    creta    ritratto    scultore    opera    dio    

Argomenti: troppo onore,    grande artista,    bonario sorriso,    filosofo greco,    lieve spinta

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