Il benefattore di Luigi Capuana pagina 23

Testo di pubblico dominio

al cranio mio e del busto, quasi fossero divenuti un cranio solo; con la sensazione di una lotta, di un contrasto di pensieri opposti che vi tumultuassero dentro per prendere gli uni sopravvento su gli altri. E mi mordevo le labbra, e increspavo le mani conficcandomi le ugne nelle carni, facendo grandi sforzi per non far scorgere all'artista la mia interna angoscia. Egli dava gli ultimi tocchi di stecca agli occhi, facendovi la pupilla, dove quasi sprizzava una luce che animava il busto straordinariamente; e lavorava intento, con estrema delicatezza, mentre io sentivo più e più invasarmi dall'idea che stèssi per perdere la mia personalità ed essere interamente asservito a quell'altro… —No! No!—gridai, slanciandomi addosso al busto e rovesciandolo con le due mani dal cavalletto. —Oh, Dio! Che hai fatto! Perchè? Perchè? Ma io non badavo al desolato grido dell'artista che vedeva distratta l'opera sua; e coi piedi deformavo la testa rimasta intatta nella caduta, facendone schizzar fuori quel cranio con le occhiaie, con la dentiera e il buco triangolare delle narici imbrattati di creta che sembrava carne imputridita e rimastavi appiccicata nello sfacelo; poi, con la punta di un piede lo facevo ruzzolare in un angolo. —Perchè? Perchè? —Perchè?—risposi, rinvenendo dal furore che mi aveva improvvisamente assalito.—Mi sentivo impazzire. Oh, quel cranio! Perdonami! Mi sentivo impazzire. Capivo l'enormità a cui ero trasceso, e la contristata figura dell'artista che guardava stupito la distruzione da me operata, mi faceva pietà. Ma io rivivevo, io provavo l'immensa gioia della liberazione dall'incubo che per poco non mi aveva fatto perdere la ragione; e stringendo affettuosamente le mani del mio povero amico, gli mormoravo: —Perdonami!.. Pensa ora al tuo Centauretto; non castigarmi col lasciarlo non finito! È un gran rimorso. Il Doneglia non ha più ripreso la gentile statuina, e la moderna scultura italiana non può contare, per mia colpa, un capolavoro di più. CARE PARENTESI. —Gli effetti sono sempre in giusta proporzione con la causa? Niente di più falso!—disse Bodura—Io, per esempio, devo a un discorso politico dell'onorevol X la più deliziosa ora della mia giovinezza. Tutti lo guardammo in viso, stupiti di quell'affermazione. —Capisco!—esclamò Carenga.—Significa che hai fatto così dolce dormita… —No, rispose Bodura.—Lottai eroicamente col sonno mentre l'onorevole parlava; la delizia venne dopo, inaspettatamente; ed ecco come. L'onorevole aveva manifestato al Sindaco e ad altri influenti personaggi il desiderio di essere invitato a parlare agli elettori del suo capo-collegio prima della riapertura della Camera; per avere occasione, diceva, di esprimere la sua gratitudine alla città che gli aveva dato il più compatto numero di voti; in realtà, perchè gli premeva di far il suo discorso-ministro. Si prevedevano grandi mutamenti nel mondo politico, qualche cosa di più di un rimpasto ministeriale o della caduta del ministero; ed egli non volea lasciarsi cogliere alla sprovveduta. Predicava, da anni, inascoltato, il suo sistema finanziario; e, in vista della probabile salita al potere della Sinistra, intendeva rammentare ai suoi amici politici:—Un ministro delle finanze? Eccomi qua!—Il 18 marzo era prossimo. Dalla data capirete che si tratta di un avvenimento della mia giovinezza. —Pur troppo!—fece Carenga, che aveva la manìa delle interruzioni. —Allora—continuò Bodura—ero innamorato della moglie del Sindaco, ed era la prima volta che rivolgevo audacemente gli occhi verso una donna maritata. Sono stato sempre timido e per ciò, allora e dopo, ho avuto poca fortuna con le donne; figuratevi se ero timidissimo con una signora che potevo avvicinare di rado e che fin la maldicenza senza scrupoli delle fiere lotte amministrative aveva sempre rispettata! La mia corte alla bellissima signora si riduceva a lunghe insistenti occhiate in teatro, in chiesa, per le vie, dovunque la incontravo; a profonde scappellate, ricambiate da lei con lievi sorrisi che mi davano la lusinga d'una tacita accettazione, convinto com'ero che qualunque omaggio alla loro bellezza riesca gradito anche alle donne più oneste. I preparativi per l'accoglienza all'onorevole richiesero parecchie riunioni; ed io, oltre che elettore, mezzo giornalista, mezzo letterato, mezzo poeta—in provincia si diventa sùbito qualcosa con poco o niente—ero stato invitato a prendervi parte in casa del Sindaco; anche perchè egli aveva posto gli occhi addosso a me pel suo discorso al banchetto. Infatti, una sera, me ne fece fare la proposta dalla sua signora, quasi fosse stata un'idea di lei. —Occorre qualcosa di bello, di elevato… Lei che è giornalista, letterato… poeta… —Oh, Signora! —Si tratta di far figurare la città. Mio marito, uomo di affari, alla buona… —Oh, Signora! —Dev'essere un segreto tra me e lei! Mi sembrò di toccare il cielo col dito. Un segreto tra me e lei! Ero diventato rosso come un peperone e non sapevo rispondere altro che quel—Oh, Signora!—stupidissimo… ma eloquentissimo, di cui ella sorrideva nell'atto di rimproverarmi la eccessiva modestia. Qualificava, forse maliziosamente, modestia il mio grande imbarazzo. Quella notte non andai a letto. Rifeci cinque o sei volte il mio lavoro, e verso le undici del giorno appresso, ora in cui il marito non sarebbe stato in casa, corsi a portare lo scritto alla adorata signora. Mi accolse con un: bravo! e mi stese tutt'e due le mani. —Sentiamo; me lo legga lei. Ricordo perfettamente che pasticcio di ampollose frasi era riuscito quel discorso; ma l'effetto della mia declamazione fu straordinario. E leggendo, pensavo:—La signora capirà benissimo che le apostrofi all'onorevole, agli italiani, al Parlamento, al Re (ce n'era per tutti!) significano soltanto:—Le ho scritte per lei!… Sono dirette a lei!… Ormai, per me, non c'è altro che lei al mondo!—Tanto sciocchi ci riduciamo quando siamo innamorati! —Grazie—ella disse.—È mirabile! Peccato che mio marito non saprà recitarlo come l'ho udito io! E congedandomi, replicò: —Non se ne scordi; deve essere un segreto tra me e lei! Mi attendevo qualcosa di più; ma infine!… Un segreto tira l'altro!… Questo mi consolava. L'onorevole arrivò pochi giorni dopo, e parlò—Dio glielo perdoni!—due ore e mezzo filate, senza arrestarsi un momento per rinfrescarsi le labbra, scaraventando cifre dietro cifre su la faccia stupita degli elettori, che non ne capivano niente; magnificando il suo sistema, che avrebbe risanato, in un batter d'occhio, le finanze dello Stato, reso fiorenti le industrie, rigogliosa l'agricoltura, rigurgitanti le tasche dei contribuenti; i quali, se si fosse adottato il suo sistema, avrebbero pagato così allegramente le tasse, da prendere pel collo gli esattori perchè ricevessero il danaro! L'onorevole parlava, parlava, parlava, agitando le braccia, sussultando con la persona, scotendo la testa, ingarbugliando tutto, anche la sintassi dei suoi periodi, e senza pur riuscire a riscuotere dallo sbalordimento l'uditorio, senza strappare un applauso, un bravo, un bene, un mormorìo di approvazione nei punti certamente da lui creduti d'irresistibile effetto! Fu applaudito, e con calore, alla fine. Gli uditori non ne potevano più. Io avevo dovuto adoperare ogni mezzo per non addormentarmi. Mi trovavo seduto in prima fila, proprio di faccia a lui; ed egli spesso, aveva l'aria di rivolgersi particolarmente a me, quasi volesse dirmi:—Voi, forse, quantunque letterato, potete capirmi. Ma gli altri!…—Ed avevo dovuto assentire con cenni del capo, tanto più seriamente quanto meno avevo capito. Dopo il discorso, eravamo andati in casa del Sindaco, che faceva all'onorevole, ai consiglieri comunali, ai più influenti cittadini uno splendido trattamento di gelati, paste, liquori, nella sala da pranzo. Stavo per prendere un gelato, quando il Sindaco venne a dirmi in un orecchio:

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Argomenti: due mani,    buco triangolare,    discorso politico,    compatto numero,    rimpasto ministeriale

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