L'Olimpia di Giambattista Della Porta pagina 6

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queste parole, or vi sia entrata tanta oblivione? Sia maladetto tal core e sia maladetta, Amor, la tua potenza, che in quel core ove piú regnar dovresti ti lasci come vil servo vincere e dispreggiare…. PROTODIDASCALO. Lasciategli essalar gl'ignicoli accensi nell'intimo del suo core, che exarso dalla concupiscenza abbi l'egresso per questi respiracoli. LAMPRIDIO…. Capelli, questo mio braccio non è piú vostro luogo! Verde seta, quanto mal fosti intrecciata con essi: mi promettesti speranza ma è giá morta ogni speranza per me. Voi m'avete ingannato; ma chi non areste ingannato se ci foste avolti da quella con tante belle maniere e tanti baci? Io calpesto cosí voi come ella ha sprezzata e calpestata la mia fede. Anello, tu non starai piú in questo dito: mi mostravi due fedi gionte, che se ben la lontananza o la morte ne parte i corpi non partirá l'alme in eterno che sieno legate d'amore…. PROTODIDASCALO. Oh, utinam, che concomitante il celeste favore questo fusse proficuo rimedio che lo vedessimo sospite di queste intricabili erumne! LAMPRIDIO…. Ahi donne perfide e infideli—delle ingrate parlo io,—tutte sète macchiate d'una pece, tutte sète ad un modo! Non perché vi si mostri piagato il core in mille parti, non perché si spenda la vita mille volte per onor vostro, si può acquistar tanto merito appresso voi che in un punto non vi si dilegui dalla memoria. L'instabilitá è ogetto del vostro cuore, la leggerezza è nata nel mondo dalla vostra condizione…. PROTODIDASCALO. Oh che tu cernessi con gli occhi miei queste donne petulche Pasife, queste trisulche vipere! GIULIO. Lampridio caro, non avete ragione biasmar tutte per una che vi dia cagion di dolervi: ci sono delle cortesi e delle gentili sí. Ben si conosce che vi sopravince la còlera. LAMPRIDIO…. Ah Mastica Mastica, non senza cagione volevi che non fossi venuto a Napoli, accioché non vedessi che mi tradivi; della tua infedeltá non devo punto maravegliarmi, perché hai fatto da quel che sei! Ma io mi masticherò questo tuo core. PROTODIDASCALO. Non t'ho io da gl'incunabuli animadvertito con mille ciceroniane auree sentenze, che in questo abietto hominum genere v'è sempre carenzia di fede? e hai sempre floccipeso le mie parole. Che vuol dir Mastica se non «mastix», «verbero», vulgari vocabolo «sacco di bastonate» e «truffatore»? GIULIO. Orsú, date fine a tanta còlera. LAMPRIDIO. Amico, se mai mi facessi piacere, vattene, lasciami qui solo, lasciami sfogare e dolere a modo mio. GIULIO. Non è vergogna qui nella strada publica dolersi come figliuolo? Andiamo a casa, serratevi in una camera e qui a vostra posta doletivi quanto vi piace. LAMPRIDIO. Né in casa vostra né in Napoli starò un sol punto; andrò a farmi monaco per disperato in un eremo. Anzi fammi una grazia, fratello: menami al Molo grande, ch'io voglio or ora buttarmi in mare. PROTODIDASCALO. Oh miserrimo chi segue questo giovenecida Amore! Germanule, andiamgli dietro, ché non incida in qualche discrimine della vita. SCENA V. TRASILOGO, SQUADRA. TRASILOGO. Dunque un romano ará tanto ardimento da farmi un simile inganno? SQUADRA. Chi v'ha rivelato questa cosa, padrone? TRASILOGO. Anasira, quella mia conoscente; e vogliono con questo inganno tormi Olimpia mia sposa. Son uscito per incontrarlo e ammazzarlo. SQUADRA. Per dirlovi, padrone, a me parea impossibile che Olimpia v'amasse mai, perché alla vista conosceva che ne stava molto aliena. TRASILOGO. O Dio, che queste feminacce del diavolo fanno sí poco conto d'un cor tremendo e foribondo! Mirami un poco in viso: è faccia questa da sprezzarsi da Olimpia? Io mi ho inteso lodar di bellezza e ho fatto morir le migliaia delle donne d'amore a dí miei; e chi m'avea a dormir seco lo riputava a molto favore, per aver razza d'un par mio per uomini da guerra. SQUADRA. Olimpia è come l'altre: s'attacca sempre al peggio. TRASILOGO. S'ella mi vedesse in mezzo un essercito di nemici, dove non si vede altro che spronar cavalli, abbassar lancie, sonar tamburri e trombe, scaricar archibuggi, bombarde e artegliarie, e io con questa mia Balisarda aprir elmi, forar corazze, romper teste, tagliar colli e infilar cuori; s'ella mi vedesse con una lancia in resta e prima che si pieghi buttar in terra almen sette persone, mi giudicarebbe un fulmine di guerra; ed ella e tutto il mondo impararebbe a far altro conto di me che non ne fanno. SQUADRA. Or questo sí che desiderarebbe veder Olimpia prima che si pieghi: di buttar sette persone in terra. TRASILOGO. Ma oimè, che la gelosia m'ha posto un verme nel core che mi rode tutto e mi scompiglia: che verme, che verme! Io sento Amore che con cento cannoni mi dá la battaria all'anima. Giá sono abbattute le cortine e occecati i belovardi, ecco mi dan l'assalto; ahi spada, che mi consigli? ahi Durindana, tu non mi servi a nulla! SQUADRA. Padrone, veggio non so chi in finestra. TRASILOGO. Mira se mi guarda. SQUADRA. Non vi move gli occhi da dosso. TRASILOGO. Deh, che m'attaccassi ora alla scaramuccia con mille persone, ché in tre colpi ne vorrei far cento pezzi di tutti; che non vorrei mai tirar colpo che non andasse a pieno, né volger sguardo che non mi facessi fuggir dinanzi una compagnia. Vien qua che ti vo' mostrar certi colpi di spada. Al primo sfodrar della spada fatti innanzi con questo mandritto sul capo, con questo roverscio alle tempie, poi caricagli sopra con un piede inanzi, che passaresti una torre da un canto all'altro. SQUADRA. Padrone, riponete la spada or che siete in furore, che non m'ammazzate. TRASILOGO. Orsú, poni effetto a questo falso filo, ché saresti per sbarattar la scrima. SQUADRA. Avertite che non vi scappi da mano. Diavolo! che Olimpia ha serrato la fenestra. TRASILOGO. Ahi, capitan Trasilogo, rovina degli esserciti, distruggitor delle cittadi, eversor degl'imperi, tu devi esser stimato cosí poco! Vien qua, spezza la porta, entra, sali e di' ad Olimpia che ho preso piú cittá e castelli e che ho piú ferite nella persona ch'ella non ha posto punti d'ago su la tela in sua vita, e che ho cento gentildonne che spasimano per amor mio; e se non fusse che è una vil feminella, non la scamparia il cielo che non avesse a partirsi una cappa meco e ucciderci dentro un steccato. Che tardi? SQUADRA. Non saria meglio, padrone, sfogar questa còlera sopra Mastica o sopra quel romano, e lasciar questa casa? chi può saper che vi sia dentro! TRASILOGO. Dici bene, mi vo' appigliare al tuo consiglio; potrebbe esser qualche stratagemma, che ci fusse qualche imboscata dentro. Será bisogno venirci ben provisto e tôr prima le difese. Andiamo, ché vo' spianar questa casa da' fondamenti. SQUADRA. Fermatevi, padrone, ché vien Mastica e un giovanetto, qual stimo il romano. Ascoltiamo un poco: forse ragionano su questo fatto. SCENA VI. MASTICA, LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO, SQUADRA, TRASILOGO. MASTICA. Anzi or veniva insino a Salerno a recarti la piú lieta novella che tu avessi avuta giamai. LAMPRIDIO. Perdonami se a torto mi sono adirato teco. MASTICA. Conosci tu questa lettera? LAMPRIDIO. Oimè, d'Olimpia mia! MASTICA. Ti porto cosa miglior di questa. LAMPRIDIO. Che cosa mi potrá esser piú cara e miglior di questa? Parla presto: che nuova m'apporti d'Olimpia? MASTICA. Nulla, ma lei tutta insieme. PROTODIDASCALO. (Me miserum, io arbitrava che fusse paulo minus che evaso da questa egritudine: or questa speranza sará un suscitabulo, ché di nuovo la fiamma si pascerá delle sue midolle!). Lampridio, perpendi gl'inganni, non credere, son tutte nughe. LAMPRIDIO. Dimmi, Mastica, dove mi porti Olimpia? PROTODIDASCALO. Se non la porta dentro quel suo tumido ventre, ignoriamo dove la porti. MASTICA. Questo ventre è che te la porta. PROTODIDASCALO. Dunque bisogna invocar: «Iuno Lucina fer opem», che tu partorisca, o chiamar un lanista che ti squarti per cavarnela fuori? MASTICA. Anzi mantenermelo grasso e grosso, onto e bisonto. LAMPRIDIO. Mira che gran ventre che ha fatto! PROTODIDASCALO. Come può esser

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