L'Olimpia di Giambattista Della Porta pagina 13

Testo di pubblico dominio

portato nel core; giá ti conosco alla sola vista. SENNIA. Questo altro giovane chi è? TEODOSIO. Eugenio vostro e mio figliuolo, che insieme con me fu rapito da' turchi. LAMPRIDIO. (Quanti Eugeni facesti, o madre?). SENNIA. (Ah ah, figlio, questi è un altro te. Mi dolea di aver perduto un figlio e in un medemo tempo n'ho racquistati duo). LAMPRIDIO. (Guardate che viso di ribaldo, che faccia di cuoio! come sta saldo!). TEODOSIO. Ah Sennia, come non mi raffiguri tu ancora? o forse lo strano abito in che mi vedi o i disaggi sufferti m'hanno talmente mutato il sembiante che non mi riconosci? Poiché sei mia moglie, deh lascia che t'abbracci! EUGENIO. O madre, ho pur visto chi m'ha generato. TEODOSIO. Voi vi discostate da me, voi mi schivate, dubitate forse che non mentisca? Non è vivo alcun di nostri parenti? ove è Beatrice mia sorella, ove è Eunèmone mio fratello? forse mi riconosceranno meglio di voi…. LAMPRIDIO. (Non vedete le lacrime che gli cadono dagli occhi? mirate che affezion di piangente, che piangere naturale!). SENNIA. (Naturalissimo). TEODOSIO…. Ti sei a torto, Sennia, dimenticata di tanto nostro scambievole amore, ché in quel breve tempo che stemmo insieme non ebbe il mondo duo sposi che s'amassero piú di noi…. SENNIA. (Eugenio, figlio, al mover della bocca e al ragionare fa certi motivi che, se ben mi ricordo, eran propri di mio marito). TEODOSIO…. Non avete un neo nell'ombelico con certi peluzzi biondi? SENNIA. (Come, figlio, ha potuto saper questo?). LAMPRIDIO. (I furbi che vanno a torno per lo mondo, da' nèi che vedono nella faccia, indovinano gli ascosti nella persona: lo sa per questo che v'ha visto nella faccia. Ma diamogli un poco la baia). SENNIA. Ditemi, quando vi sète riscattati? TEODOSIO. Avendomo inviato molte lettere per lo riscatto, ha voluto la nostra disgrazia che di niuna ne abbiamo ricevuto risposta; cosí abbiam rotta la prigionia e siamo scampati. LAMPRIDIO. Voi dovete esser usi a star in prigione; non deve esser questa la prima volta che l'avete rotta. SENNIA. Come sète venuti a Napoli? EUGENIO. In poco tempo, vogando il remo la notte e il giorno. LAMPRIDIO. (N'han ciera da vogar bene: mirate che braccia sode, proprio nate per stare ad una galea!). Che strada avete voi fatta al venir di Turchia? EUGENIO. Niuna, l'avemo ritrovate fatte. LAMPRIDIO. Che si fa, che si dice in Turchia? EUGENIO. Si fan mercanzie, palaggi e navi, e si dicono delle veritadi e delle bugie, come qui ancora. LAMPRIDIO. Mi risponde da filosofo. EUGENIO. E tu mi dimandi come se mi volessi dar la baia. LAMPRIDIO. (Al sicuro ragionar di costoro e a' segni che mostra Sennia, dubito da dovero che questi sieno i veri Teodosio ed Eugenio, e io stesso m'arò dato l'ascia nelle gambe in fargli conoscere Sennia). Ma rispondetemi: quanto avete allogato questi ferri e questi cenci che avete adosso? e quanto v'ha promesso il capitano ché lo vogliate servire a questo effetto? EUGENIO. Che promesse, che servire, che capitano? LAMPRIDIO. Ché foste venuti con dir che siate Teodosio ed Eugenio, accioché Olimpia mia sorella gli fusse data per moglie? TEODOSIO. Io non so che tu dica: io sono il vero Teodosio e questi è il vero Eugenio mio figliuolo. LAMPRIDIO. Voi fingete cosí, ma non sète quelli che dite. Andate a ritrovare il capitano e ditegli da mia parte che è stato tardi, ché il vero Eugenio è prima gionto del suo falso. EUGENIO. Chi è questo Eugenio? LAMPRIDIO. Io son desso. EUGENIO. Di chi sète figlio? LAMPRIDIO. Per non tenerti a bada, io son tutto quello che poco anzi costui ha detto che sei tu. EUGENIO. Voi potete chiamarvi del mio nome ed esser figlio a Teodosio, ma non potete esser me giamai. LAMPRIDIO. Mirami un poco in viso. Sta' fermo. Non vedi che diventi rosso e che cominci a tremare? EUGENIO. Vi paio io uomo da tremare se ben sto mezzo nudo? LAMPRIDIO. Come sei venuto cosí appunto oggi come io? Siamo ancor noi andati per lo mondo e sappiamo di malizia la parte nostra. EUGENIO. Che volete dir per questo? LAMPRIDIO. Che non sei Eugenio. EUGENIO. Che son dunque? LAMPRIDIO. Un truffator di nomi e delle altrui autoritá. EUGENIO. Forse con piú veritá si potrebbe dir di te. LAMPRIDIO. Dici dunque ch'io sia uomo da far truffe? EUGENIO. Te lo dicono l'opre. LAMPRIDIO. S'io non facessi torto al boia che ti aspetta, ché ti veggio le forche scolpite negli occhi, ti sfreggiarei cotesta faccia bugiarda, accioché ogni uomo da questo segnale si guardasse non farsi ingannare da te. SENNIA. Eugenio, figlio, non gli far male; mi paiono di buona ciera. LAMPRIDIO. Ma sono di cattivo mele. TEODOSIO. Andiamo, figlio, che difesa possiamo far noi quasi nudi e disarmati? EUGENIO. Come posso patir questo torto, o padre? TEODOSIO. Ove è forza, è bisogno che ceda la ragione: ci perderemo la vita. EUGENIO. Quasi ch'io stimi vita dove si tratta d'onore. LAMPRIDIO. (Questi sono i verissimi). Su, andate per li fatti vostri. EUGENIO. Questi sono i fatti nostri, cercar i parenti e la casa nostra. LAMPRIDIO. Partitevi di qui: andate a gridare al mercato. EUGENIO. Andremo a gridare dove s'ascolteranno le nostre ragioni e si scopriranno l'altrui vigliaccherie. LAMPRIDIO. (Se non gli scaccio di qui, non será ben di me tutto oggi). SENNIA. Lasciategli andare, Eugenio mio, che giá si partono. TEODOSIO. Ricordati, moglie, che quando mi desti le tue primizie, mi desti il possesso ancora della vita e del tuo core. SENNIA. Oimè, che questa parola m'ha veramente passato il core, ché giá mi ricordo avergli io detto questa parola in quel tempo, né penso che altra persona l'ha potuto saper giamai che accadette fra noi duo soli. Io non so a chi creder io. Dio mi liberi di qualche sciagura! SCENA VII. FILASTORGO, LAMPRIDIO, SENNIA. FILASTORGO. Son giá fastidito d'andar dimandando, e dubito se non l'incontro a caso, di non averlo a ritrovar giamai; e in cosí populosa cittá è appunto l'andar cercando lui come un ago nella paglia. LAMPRIDIO. (L'ho cacciati in malora!). Andiamcene su, madre. SENNIA. Andiamo, ma questo forestiero che or mi par gionto in Napoli, figlio, non ti muove gli occhi da dosso. FILASTORGO. (Se il desiderio che ho di veder mio figlio non mi fa parer ogni uomo lui, questi è Lampridio mio). LAMPRIDIO. (Se la rabbia e la còlera non m'hanno offuscati gli occhi insieme col core, questi mi par Filastorgo mio padre). FILASTORGO. (Egli è certo. Oh come l'ho ritrovato a punto! non l'arei potuto ritrovare a migliore). LAMPRIDIO. (Oimè ch'egli è certissimo; o Dio, a che ponto viene! in presenza di Sennia! non l'arei potuto incontrare a peggiore: or serò discoverto del tutto). FILASTORGO. (Non so se debbo salutarlo o se debbo correre e abbracciarlo). LAMPRIDIO. (Non so che fare, misero me! debbo fuggire oppur fingere di non conoscerlo?). FILASTORGO. (Lo saluterò, poi con insperato gaudio vo' abbracciarlo). LAMPRIDIO. (Vo' fingere di non conoscerlo; perché se mi parto, porrò
Sennia in maggior suspetto).
FILASTORGO. O Lampridio, figliuolo carissimo, Iddio ti salvi! LAMPRIDIO. Oh oh, chi sète voi? FILASTORGO. Non mi conosci? LAMPRIDIO. Non mi ricordo avervi giamai visto. FILASTORGO. Mirami bene in faccia. Che dici ora? LAMPRIDIO. Né tampoco mi ricordo. FILASTORGO. Hai fatto la vista cosí corta o forse l'aria di Napoli è cosí grossa che non ti fa veder bene? LAMPRIDIO. Non ti conosco né mi curo conoscerti. FILASTORGO. Non sei tu Lampridio? LAMPRIDIO. Forestiere, m'avete tolto in cambio, perché chiamate
Lampridio un che si chiama Eugenio.
FILASTORGO. Il nome e i panni t'arai potuto cambiare, ma l'effigie è quella istessa che avevi in casa mia. LAMPRIDIO. Tu sei troppo fastidioso: vuoi a forza ch'io ti conoschi non conoscendoti. FILASTORGO. Non conosci tu Filastorgo? LAMPRIDIO. Non ho inteso nominar tal nome giamai. FILASTORGO. Che nieghi me non me ne maraviglio: maggior maraviglia sarebbe se, avendo negato te stesso, volessi accettar di conoscer me per padre. LAMPRIDIO. Che arroganza è la tua far ingiuria a chi non conosci?

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Argomenti: breve tempo,    strano abito,    insperato gaudio

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