Novelle rusticane di Giovanni Verga pagina 14

Testo di pubblico dominio

susurrandogli: - Sentite! cinque lire più o meno, se non lo vendete oggi, un minchione come mio compare non lo trovate più da comprarvi la vostra bestia che non vale un sigaro. Ed abbracciava anche la padrona dell'asino, le parlava all'orecchio, per tirarla dalla sua. Ma ella si stringeva nelle spalle, e rispondeva col viso torvo: - Sono affari del mio uomo. Io non c'entro. Ma se ve lo dà per meno di quaranta lire è un minchione, in coscienza! Ci costa di più a noi! - Stamattina ero pazzo ad offrire trentacinque lire - ripicchiava compare Neli. - Vedete se ha trovato un altro compratore per quel prezzo? In tutta la fiera non c'è più che quattro montoni rognosi e l'asino di san Giuseppe. Adesso trenta lire, se li vuole! - Pigliatele! - suggeriva piano al marito la padrona dell'asino colle lagrime agli occhi. - Stasera non abbiamo da far la spesa, e a Turiddu gli è tornata la febbre; ci vuole il solfato. - Santo diavolone! - strillava suo marito. - Se non te ne vai, ti faccio assaggiare la cavezza! - Trentadue e mezzo, via! - gridò infine l'amico, scuotendoli forte per il colletto. - Né voi, né io! Stavolta deve valere la mia parola, per i santi del paradiso! e non voglio neppure un bicchiere di vino! Vedete che il sole è tramontato? Cosa aspettate ancora tutt'e due? E strappò di mano al padrone la cavezza, mentre compare Neli, bestemmiando, tirava fuori dalla tasca il pugno colle trentacinque lire, e gliele dava senza guardarle, come gli strappassero il fegato. L'amico si tirò in disparte colla padrona dell'asino, a contare i denari su di un sasso, mentre il padrone dell'asino scappava per la fiera come un puledro, bestemmiando e dandosi dei pugni. Ma poi si lasciò raggiungere dalla moglie, la quale adagio adagio andava contando di nuovo i denari nel fazzoletto, e domandò: - Ci sono? - Sì, ci son tutti; sia lodato san Gaetano! Ora vado dallo speziale. - Li ho minchionati! Io glielo avrei dato anche per venti lire; gli asini di quel colore lì sono vigliacchi. E compare Neli, tirandosi dietro il ciuco per la scesa, diceva: - Com'è vero Dio, glie l'ho rubato il puledro! Il colore non fa niente. Vedete che pilastri di gambe, compare? Questo vale quaranta lire ad occhi chiusi. - Se non c'ero io - rispose l'amico - non ne facevate nulla. Qui ci ho ancora due lire e mezzo di vostro. E se volete, andremo a berle alla salute dell'asino. Adesso al puledro gli toccava di aver la salute per guadagnarsi le trentadue lire e cinquanta che era costato, e la paglia che si mangiava. Intanto badava a saltellare dietro a compare Neli, cercando di addentargli il giubbone per giuoco, quasi sapesse che era il giubbone del padrone nuovo, e non gliene importasse di lasciare per sempre la stalla dov'era stato al caldo, accanto alla madre, a fregarsi il muso sulla sponda della mangiatoia, o a fare a testate e a capriole col montone, e andare a stuzzicare il maiale nel suo cantuccio. E la padrona, che contava di nuovo i denari nel fazzoletto davanti al banco dello speziale, non pensava nemmen lei che aveva visto nascere il puledro, tutto bianco e nero colla pelle lucida come seta, che non si reggeva ancora sulle gambe, e stava accovacciato al sole nel cortile, e tutta l'erba con cui s'era fatto grande e grosso le era passata per le mani. La sola che si rammentasse del puledro era la ciuca, che allungava il collo ragliando verso l'uscio della stalla; ma quando non ebbe più le poppe gonfie di latte, si scordò del puledro anch'essa. - Ora questo qui - diceva compare Neli - vedrete che mi porta quattro tumoli di farro meglio di un mulo. E alla messe lo metto a trebbiare. Alla trebbiatura il puledro, legato in fila per il collo colle altre bestie, muli vecchi e cavalli sciancati, trotterellava sui covoni da mattina a sera, tanto che si riduceva stanco e senza voglia di abboccare nel mucchio della paglia, dove lo mettevano a riposare all'ombra, come si levava il venticello, mentre i contadini spagliavano, gridando: Viva Maria! Allora lasciava cascare il muso e le orecchie ciondoloni, come un asino fatto, coll'occhio spento, quasi fosse stanco di guardare quella vasta campagna bianca la quale fumava qua e là della polvere delle aie, e pareva non fosse fatta per altro che per lasciar morire di sete e far trottare sui covoni. Alla sera tornava al villaggio colle bisacce piene, e il ragazzo del padrone seguitava a pungerlo nel garrese, lungo le siepi del sentiero che parevano vive dal cinguettìo delle cingallegre e dall'odor di nepitella e di ramerino, e l'asino avrebbe voluto darci una boccata, se non l'avessero fatto trottare sempre, tanto che gli calò il sangue alle gambe, e dovettero portarlo dal maniscalco; ma al padrone non gliene importava nulla, perché la raccolta era stata buona, e il puledro si era buscate le sue trentadue lire e cinquanta. Il padrone diceva: "Ora il lavoro l'ha fatto, e se lo vendo anche per venti lire, ci ho sempre il mio guadagno". Il solo che volesse bene al puledro era il ragazzo che lo faceva trotterellare pel sentiero, quando tornavano dall'aia; e piangeva mentre il maniscalco gli bruciava le gambe coi ferri roventi, che il puledro si contorceva, colla coda in aria, e le orecchie ritte come quando scorazzava pel campo della fiera, e tentava divincolarsi dalla fune attorcigliata che gli stringeva il labbro, e stralunava gli occhi dallo spasimo quasi avesse il giudizio, quando il garzone del maniscalco veniva a cambiare i ferri rossi qual fuoco, e la pelle fumava e friggeva come il pesce nella padella. Ma compare Neli gridava al suo ragazzo: - Bestia! perché piangi? Ora il suo lavoro l'ha fatto, e giacché la raccolta è andata bene lo venderemo e compreremo un mulo, che è meglio. I ragazzi certe cose non le capiscono, e dopo che vendettero il puledro a massaro Cirino il Licodiano, il figlio di compare Neli andava a fargli visita nella stalla e ad accarezzarlo nel muso e sul collo, ché l'asino si voltava a fiutarlo come se gli fosse rimasto attaccato il cuore a lui, mentre gli asini son fatti per essere legati dove vuole il padrone, e mutano di sorte come cambiano di stalla. Massaro Cirino il Licodiano aveva comprato l'asino di san Giuseppe per poco, giacché aveva ancora la cicatrice al pasturale, che la moglie di compare Neli, quando vedeva passare l'asino col padrone nuovo, diceva: "Quello era la nostra sorte; quel pelame bianco e nero porta allegria nell'aia; e adesso le annate vanno di male in peggio, talché abbiamo venduto anche il mulo". Massaro Cirino aveva aggiogato l'asino all'aratro, colla cavalla vecchia che ci andava come una pietra d'anello, e tirava via il suo bravo solco tutto il giorno per miglia e miglia, dacché le lodole cominciano a trillare nel cielo bianco dell'alba, sino a quando i pettirossi correvano a rannicchiarsi dietro gli sterpi nudi che tremavano di freddo, col volo breve e il sibilo malinconico, nella nebbia che montava come un mare. Soltanto, siccome l'asino era più piccolo della cavalla, ci avevano messo un cuscinetto di strame sul basto, sotto il giogo, e stentava di più a strappare le zolle indurite dal gelo, a furia di spallate: "Questo mi risparmia la cavalla che è vecchia, diceva massaro Cirino. Ha il cuore grande come la Piana di Catania, quell'asino di san Giuseppe! e non si direbbe". E diceva pure a sua moglie, la quale gli veniva dietro raggomitolata nella mantellina, a spargere la semente con parsimonia: - Se gli accadesse una disgrazia, mai sia! siamo rovinati, coll'annata che si prepara. La donna guardava l'annata che si preparava, nel campicello sassoso e desolato, dove la terra era bianca e screpolata, da tanto che non ci pioveva, e l'acqua veniva tutta in nebbia, di quella che si mangia la semente; e quando fu l'ora di zappare il seminato pareva la barba del diavolo, tanto era rado e giallo, come se l'avessero bruciato coi fiammiferi. "Malgrado quel maggese che ci avevo preparato!" piagnucolava massaro Cirino strappandosi di dosso il giubbone. "Che quell'asino ci ha rimesso

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Argomenti: pelame bianco,    volo breve,    cuore grande,    porta quattro,    nero porta

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